Il cardinale Dziwisz (Reuters).
Si guarda indietro, perché la domanda la intuisce e già un velo di commozione gli scende sullo sguardo. Eminenza, c’è una parola, una sola, un fatto, uno solo, di Karol Wojtyla che lei ha inchiodato nella memoria e nel cuore? Il cardinale Stanislaw Dziwisz conobbe Karol Wojtyla a 18 anni, nel 1957. Era il suo professore di etica. Sei anni dopo, il 23 giugno 1963, Wojtyla, giovane vescovo di Cracovia, lo ordinò sacerdote. Le prime tappe sono state queste e tutto sembrava fermarsi lì.
Finché un giorno dell’ottobre 1966 l’arcivescovo metropolita di Cracovia lo invitò a casa. Aveva ventisette anni e gli chiese di aiutarlo come suo segretario personale. «Da quando?», chiese don Stanislaw. «Da subito», rispose Wojtyla. E il giorno dopo Stanislaw Dziwisz cominciò l’avventura più importante della vita. Il cardinale a volte si commuove, stringe forte le mani dell’interlocutore, serra un po’ le labbra. Chi lo va a trovare nella casa di Cracovia, che fu di Wojtyla, lo sa che se si domanda delle sue emozioni lui si turba, ma non le nasconde affatto. Non ha paura delle lacrime, il cardinale di Cracovia. E risponde: «Ci penso, ma è un turbinio di immagini e di parole, risento la sua voce possente, che sapeva farsi dolcissima, ma anche diventare invettiva, come quel giorno ad Agrigento contro la mafia, o cercare di superare le grida della piazza in Nicaragua quando i sandinisti gli avevano spento il microfono e lui gridava più forte. Rivedo tutto, risento tutto, 27 anni di pontificato e prima, gli anni in Polonia».
«Ma c’è una voce che sovrasta tutte le altre», confida il cardinale Dziwisz. «Era un filo di voce, una bava di vento appena percettibile. L’ambulanza scivolava nel traffico di Roma e sentivo che lui moriva. Gli reggevo la testa. Pregava non per sé stesso, ma per chi gli aveva sparato e non sapeva neppure chi fosse. “Perdono”, diceva. “Perdono”, ripeteva. La coscienza lo lasciava e lui tenacemente si aggrappava alla vita, pregando per la Chiesa. Nulla mi sembra più grande in Karol Wojtyla».
Forse sta qui la chiave della santità di Giovanni Paolo II. Nelle parole di chi gli è stato più vicino emerge la convinzione che la preghiera è la chiave per capire la personalità di Giovanni Paolo II: «Sempre è stato così fin dagli anni bui segnati dalla guerra, preghiera come ordine morale, preghiera come stile di vita, preghiera da solo e preghiera insieme a chi gli stava attorno, comprese le folle oceaniche. E preghiera era il suo lavoro faticoso, concepito come un sacrificio per Cristo e la sua Chiesa e per il mondo».
Non vuole che adesso la vita di Karol Wojtyla diventi un museo: «Sì, ci deve essere anche un museo e lo abbiamo finalmente aperto a Wadowice, nella casa dove nacque nel 1920. Ci sono i ricordi, è una finestra aperta sul servizio che ha offerto durante la sua vita. Ma non dobbiamo fermarci ai musei. La vera memoria di Wojtyla sta nello studio del suo pensiero, nello sviluppo della sua eredità culturale».
È quello che il cardinale intende fare con il grande Centro che sta nascendo a Cracovia e spera possa essere benedetto da papa Francesco quando arriverà nella città polacca per la prossima Giornata mondiale della gioventù. È così, dice, che «si custodisce la sua santità», è così che «diventa feconda: Karol Wojtyla non è un’immagine in un santino. Se il santino, che pure molti conservano gelosamente, non diventa anche icona di entusiasmo per il Vangelo e passione per il servizio all’uomo, alla fine sbiadisce».
Sente che il suo servizio al Papa polacco ancora non è finito: «Continua a condizionare il mio impegno. Sono esecutore del suo testamento, ma di cose materiali Giovanni Paolo II ne aveva proprio poche. Quello che aveva mi ha detto di regalarlo e così ho fatto. Resta l’enorme eredità spirituale, che io mi sento incaricato di diffondere, perché sono convinto che essa possa arricchire molto la Chiesa».
Tra le cose che lo hanno sempre colpito c’è il fatto che fin dal primo giorno Karol Wojtyla in Vaticano «si sentiva come a casa propria: si riprese subito dallo shock dell’elezione, ha imparato in fretta a fare il Papa, perché faceva così anche a Cracovia, tanto ascolto, tanta preghiera, tanta apertura alle culture e a contesti diversi. Lo aiutavano la sua formazione intellettuale, la conoscenza di tante lingue. Sarà un santo amato non solo dai credenti».
A volte le analisi si bloccano e don Stanislaw torna ai ricordi personali, all’emozione dei giorni e sorride: «Ogni tanto penso a come dovrò rivolgermi a lui: Santo padre o Padre santo? Per me è stato un padre e adesso è santo. Al Papa ci si rivolge chiamandolo Santo padre, ma adesso potrò dire Padre santo, un padre che ha messo Dio al centro».
C’è solo una cosa che ancora don Stanislaw non riesce a raccontare e quando ci prova la voce si rompe. Quando con le sue mani stese il velo sul volto del Papa appena morto: «Quel volto che ho amato e stimato e io piangevo. Ho provato emozioni forti, e ho sempre pianto. Domenica 27 aprile le emozioni potranno essere forse diverse, ma le lacrime no, quelle sono le stesse di tutta la mia vita accanto a lui».