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sabato 12 ottobre 2024
 
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Giovanni Paolo II scriveva alle famiglie

23/07/2011  In occasione dell’anno internazionale della famiglia, nel 1994 Giovanni Paolo II scrive la Lettera alle famiglie, indirizzandola ai genitori e ai figli di tutto il mondo.

L’anno 1994, per iniziativa dell’Onu, è stato proclamato Anno internazionale della famiglia, dimostrando così quanto la questione familiare è importante per le nazioni. Giovanni Paolo II coglie l’occasione per scrivere una Lettera alle famiglie di tutto il mondo. «La celebrazione dell’anno della famiglia mi offre la gradita occasione di bussare alla porta della vostra casa, desideroso di salutarvi con grande affetto e di intrattenermi con voi» (n. 1). La famiglia ha un’importanza vitale: «Quando manca la famiglia, viene a crearsi nella persona che entra nel mondo una preoccupante e dolorosa assenza che peserà in seguito su tutta la vita» (n. 2). La Chiesa, popolo di Dio in cammino nella storia, non può non incrociare la famiglia che, tra le numerose strade, «è la prima e la più importante: […] una via dalla quale l’essere umano non può distaccarsi » (n. 2). È missione della Chiesa servire la famiglia con il grande patrimonio di storia, di testimonianze e di proposte di cui dispone. Il Papa auspica che l’Anno della famiglia sia animato da una grande preghiera che «raggiunga anche le famiglie in difficoltà o in pericolo, quelle sfiduciate o divise e quelle che si trovano in situazioni irregolari (n. 5). A tutte desidera manifestare amore e sollecitudine.

Nel rileggere la Lettera, a distanza di diciassette anni (1994-2011), il pensiero va anzitutto a “Chi” l’ha scritta. Giovanni Paolo II manifesta una passione per la famiglia. Come sacerdote si è dedicato all’apostolato tra i giovani; come docente di etica all’Università Cattolica di Lublino, ha pubblicato libri, tradotti anche in italiano, sulla dignità della persona e sull’amore umano nella visione filosofica e teologica; come vescovo di Cracovia, ha partecipato al concilio Vaticano II (1962-1965) contribuendo, in particolare, alla stesura della Gaudium et spes dove si trova il capitolo “Valorizzazione del matrimonio e famiglia”. Durante il pontificato, tra i più lunghi e il primo dopo parecchi secoli di Papi italiani, ha voluto il Sinodo dei vescovi sulla Famiglia (1980), al quale ha fatto seguire l’Esortazione apostolica Familiaris consortio (1981) su “I compiti della famiglia cristiana nei tempi odierni”.

La Lettera conduce a ripensare la famiglia che, oggi come allora, nelle sue luci e ombre, è al centro della comunità ecclesiale e civile. Contrariamente alle indagini statistiche pessimistiche, la famiglia, fondata sul matrimonio, tiene bene ed è di gran lunga il modello più scelto e praticato. Sarebbe, tuttavia, irrealistico ignorarne la fragilità. Alla realtà di un’unione, destinata a sfidare e durare nel tempo, fanno riscontro crisi e fallimenti che si traducono in separazioni, divorzi con il cumulo di sofferenze affettive, familiari e sociali. Non è scontato che il matrimonio sia luogo di felicità e di pace, può trasformarsi in luogo di disagio, di mancanza affettiva, d’incomunicabilità e di egoismo dei singoli, luogo di alienazione e di smarrimento personale. Non può non preoccupare il fenomeno della violenza familiare che, come un iceberg occulto, fa la sua apparizione in proporzioni allarmanti. Tra altri problemi, la denatalità è un fenomeno vistoso nelle società occidentali ricche di beni, ma povere di bene. Le cause non sono riconducibili esclusivamente all’economia, all’organizzazione del lavoro e al deficit dei servizi sociali, sebbene abbiano un forte peso. Ma fino a che punto i cristiani e le comunità cristiane vivono il Vangelo della famiglia? Fino a che punto lo conoscono e lo considerano via alla costruzione della civiltà dell’amore dentro e fuori le pareti domestiche? O, al contrario, non lo considerano forse poco comprensivo dell’umano, intransigente e severo? Leggere la Lettera come fosse scritta oggi, significa ritrovare un pensiero che orienta il cammino delle famiglie: quelle riuscite e quelle che faticano a perseverare sulla strada dell’amore reciprocamente donato e ricevuto.

Il contenuto della Lettera si sviluppa attorno a due titoli: La civiltà (o cultura) dell’amore (nn. 6-17) che ha, nella famiglia, fondata sul matrimonio, «il cuore e il centro». In successione, il secondo titolo, Lo Sposo è con voi (nn. 18-23). Con questa immagine biblica (sposo) per parlare di Dio, «Gesù mostra quanta paternità e quanto amore si riflettano nell’amore di un uomo e di una donna che si uniscono nel matrimonio ». In altre parole, il matrimonio è una realtà umana, ma non è leggibile unicamente ed esclusivamente nell’orizzonte immanente, perché rinvia oltre e richiama una realtà trascendente che, per la cultura razionalista, resta di difficile comprensione. Un serio interrogativo attende risposta: «Ma […]se alla famiglia non è aperta la possibilità di partecipare al “grande mistero”, che cosa rimane se non la sola dimensione temporale della vita? Resta la vita temporale come terreno di lotta per l’esistenza, di ricerca affannosa del profitto, di quello economico prima di tutto» (n. 19).

L’amore è la parola chiave che guida l’intera riflessione. È il primo principio teologico: definisce e identifica chi è Dio (Dio è amore); è, conseguentemente, il primo principio antropologico: definisce chi è l’essere umano (creato a immagine e somiglianza di Dio che è amore); e anche il primo principio etico: l’amore definisce il senso ultimo dell’agire umano in ogni ambito della vita. L’amore supera l’egoismo, si apre all’altruismo, crea legami interpersonali, è dono di sé all’altro, agli altri, all’Altro. L’essere umano, uomo e donna, «non può ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé» (n. 11). L’amore umano prende forma unica nel matrimonio tra un uomo e una donna, e qualifica il loro essere sposi, genitori, educatori, in una integrazione continua e reciproca.

di amore», «alleanza coniugale», «unità dei due», «dono che reciprocamente si danno e ricevono». È questa la visione del matrimonio emersa al concilio Vaticano II in continuità/discontinuità con il pensiero tradizionale che l’aveva alquanto trascurata. Al riguardo, è significativo il commento di un filosofo laico, J. Dominian quando riconosce che le Chiese sono passate a descrivere il matrimonio in termini di alleanza, di dedizione, di relazione e così hanno raggiunto il nucleo centrale dell’esperienza umana e il divino mistero di questo rapporto.

L’amore umano, come donazione di sé nel tempo e oltre il tempo, qualifica la relazione tra gli sposi, è il movente e, insieme, il traguardo della realizzazione in pienezza: «Diventeranno una comunione-comunità». L’amore reciproco degli sposi è il senso, la finalità, il movente del matrimonio che fonda la famiglia. «La loro unità, tuttavia, anziché chiuderli in sé stessi, li apre a una nuova vita, a una persona» (n. 8). Dal matrimonio nasce la famiglia. La Lettera parla dell’inscindibile connessione tra essere sposi ed essere genitori. Non sono prospettive che si sovrappongono o si aggiungono l’una all’altra: tutto s’iscrive in una logica e dinamica di continuità e di reciproca integrazione. «I figli da loro generati dovrebbero – qui sta la sfida – consolidare tale patto, arricchendo e approfondendo la comunione del padre e della madre» (n. 7). Desiderare i figli e volerli per sé stessi, così che possano crescere in modo libero e responsabile, sono segni evidenti di un amore che include ma va oltre il bene proprio. Le coppie delle società d’Occidente, in realtà, non escludono i figli né li considerano alternativi alla loro autonomia e felicità. Basta pensare all’iter defatigante e dispendioso che intraprendono con il ricorso, se necessario, alle tecniche di fecondazione artificiale. Tuttavia, non si può negare «la tendenza a restringere il nucleo familiare entro l’ambito di due generazioni» (n. 10). Non è solo egoismo ed edonismo: si frappongono, infatti, molteplici cause, come mancanza del lavoro e della casa. Tuttavia, alla radice, molte coppie non esperimentano il figlio come un bene-valore, ma come un peso. «C’è poca vita umana nelle famiglie dei nostri giorni» (n. 10). La Lettera intuisce alcuni interrogativi: «Ma è proprio vero che il nuovo essere umano è un dono per i genitori? Un dono per la società? […]Certamente la nascita di un figlio significa per i genitori ulteriori fatiche, nuovi pesi economici, altri condizionamenti pratici: motivi questi che possono indurli a non desiderare un’altra nascita».

«Il figlio non è dunque un dono? Viene solo per prendere e non per dare? » (n. 11). Per risposta, la Lettera invita, senza indulgere a contrapposizioni, a un nuovo modo di pensare e mostra come nessun altro bene-valore regge a confronto con il bene-valore del figlio, nella famiglia e nella società. Come la generazione è compresa nell’orizzonte dell’amore degli sposi, così è anche l’educazione, che è generazione che continua. C’è un nesso intrinseco tra educare e generare: la relazione educativa s’innesta nell’atto generativo e nell’esperienza di essere figli. La famiglia diviene comunità educante nel suo essere famiglia, cioè relazione che va dai genitori ai figli, ma anche dai figli ai genitori: «Maestri di umanità dei propri figli, essi la apprendono da loro» (n. 16).

È un cerchio che si allarga: «Svolgono un ruolo singolare, da un lato, i genitori dei genitori e, dall’altro, i figli dei figli». Spesso la realtà, purtroppo, non si allarga, ma si restringe. La Lettera lamenta l’incresciosa situazione della sposa di essere spesso lasciata sola nella maternità e nell’educazione dei figli, e per di più di non essere considerata e stimata. Esige che il lavoro della donna sia riconosciuto anche economicamente, in quanto il suo lavoro non teme confronti con altri lavori e prestazioni. «La fatica della donna che, dopo aver dato alla luce un figlio, lo nutre, lo cura e si occupa della sua educazione, specialmente nei primi anni, è così grande da non temere il confronto con nessun lavoro professionale » (n. 17). La Lettera raggiunge un alto livello pedagogico nel considerare l’educazione come partecipazione alla pedagogia divina: «Se nel donare la vita, i genitori prendono parte all’opera creatrice di Dio, mediante l’educazione essi diventano partecipi della sua paterna e insieme materna pedagogia». Da qui «prende il via ogni processo di educazione cristiana che, al tempo stesso, è sempre educazione alla piena umanità» (n. 16).

La famiglia non è un’isola, vive nella società. Tra famiglia e società c’è un’inevitabile interdipendenza, in bene e in male, nei valori e disvalori morali. Sono molteplici i condizionamenti negativi della società. La famiglia, nelle società occidentali, è condizionata pesantemente dalla spirale delle cose e dalla pubblicità dove il primato è dato alle cose. La civiltà contemporanea sembra essere «una civiltà del prodotto e del godimento, una civiltà delle “cose” e non delle “persone”: una civiltà in cui le persone si usano come si usano le cose» (n. 13). E ritorna più avanti: «La nostra civiltà che pur registra tanti aspetti positivi sul piano sia materiale che culturale, dovrebbe rendersi conto di essere, da diversi punti di vista, una civiltà malata, che genera profonde alterazioni nell’uomo» (n. 20). Anche il lavoro (il troppo o lo scarso lavoro, i suoi ritmi) condiziona la qualità della vita di coppia e di famiglia. La famiglia è condizionata da una mentalità individualista che conduce a decidere secondo calcoli di utilità e del proprio tornaconto: al primo posto c’è l’individuo, al secondo posto l’appartenenza alla comunità, sia civile che ecclesiale. La famiglia è condizionata da una mentalità relativista, dove idee e comportamenti, anche opposti e contraddittori l’uno all’altro, sono messi sullo stesso piano. Si rinuncia in partenza a cercare quale sia la verità oggettiva.

La famiglia, in conclusione, per un complesso di fattori sociali e culturali, è indebolita nel suo essere «comunione di vita e di amore» non per una lotta fatta di scontri a livello ideologico, ma per un condizionamento culturale generale. Tra le cause, non si può ignorare l’incidenza negativa dei media quando si allontanano dalla verità della persona, della sessualità e dell’amore, diventando così fattori di nuove dipendenze e schiavitù. «Non portano a questa schiavitù “certi programmi culturali”? Sono programmi che “giocano” sulle debolezze dell’uomo, rendendolo così sempre più debole e indifeso» (n. 13). E ritorna più avanti: «Quale verità può esserci nei film, negli spettacoli, nei programmi radio-televisivi nei quali dominano la pornografia e la violenza». E afferma con forza: «L’essere umano non è quello reclamizzato dalla pubblicità e presentato nei moderni mass media. È molto di più, come unità psicofisica, come tutt’uno di anima e di corpo, come persona». (n. 20). La Lettera riconosce, così, che «la famiglia si trova al centro del grande combattimento tra il bene e il male, tra la vita e la morte, tra l’amore e quanto all’amore si oppone. Alla famiglia è affidato il compito di lottare prima di tutto per liberare le forze del bene...Occorre far sì che tali forze siano fatte proprie da ogni nucleo familiare, affinché la famiglia sia forte di Dio» (n. 23). La Lettera, mentre registra il condizionamento in negativo della società e della cultura dominante, propone con sicura speranza la famiglia come umanizzatrice della società. La famiglia, ambito di comunione e di partecipazione, diventa scuola di socialità e del più ricco umanesimo, luogo privilegiato di umanizzazione e di crescita delle relazioni. Il bene-valore della famiglia è anche il bene-valore della società. La famiglia è la prima cellula della società, ancora di più è la prima società, il primo soggetto sociale. Così la famiglia è configurata come istituzione naturale e sociale di base che ha un rapporto di piena reciprocità con altre istituzioni. «Al riguardo, la Santa Sede ha pubblicato nel 1983 la “Carta dei diritti della famiglia”, che conserva anche ora la sua attualità» (n. 17).

«Alla fine della vita saremo giudicati sull’amore» (n. 22). Con la citazione di san Giovanni della Croce, la Lettera invita a pensare al giudizio finale, al termine della storia umana e cosmica. Il giusto giudice è Gesù, «Sposo dell’umanità e delle famiglie», come viene denominato nella Lettera. «Il suo sarà un giudizio sull’amore, un giudizio che confermerà che lo Sposo era con noi, senza che forse, lo sapessimo »: era con l’affamato, con l’assetato, con il forestiero, il nudo che abbiamo rivestito... (Mt 25,34-36). A questo elenco, la Lettera aggiunge coinvolgenti applicazioni che riguardano direttamente la vita familiare. «Potremmo trovarci – scrive – anche espressioni come queste: “Ero bambino non ancora nato e mi avete accolto permettendomi di nascere; ero bambino abbandonato e siete stati per me una famiglia: ero bambino orfano e mi avere adottato ed educato come un vostro figlio”. E ancora: “Avete aiutato le madri dubbiose, o soggette a fuorvianti pressioni, ad accettare il loro bambino non nato e a farlo nascere; avete aiutato famiglie numerose, famiglie in difficoltà a mantenere e educare il figlio che Dio aveva loro donato».

C’è, però, anche il rovescio: il giusto Giudice si identifica con chi aveva fame, sete, era forestiero, nudo, in carcere, ma non è stato accolto. Anche a questo elenco in negativo, si aggiunge: «Così egli si identifica con la moglie o il marito abbandonati, con il bambino concepito e rifiutato». E avverte che «“Il non mi avete accolto” di Cristo coinvolge anche istituzioni sociali, Governi e organizzazioni internazionali ».

La Lettera scrive sull’amore, che unisce gli sposi, con fine e alta sensibilità come nessun altro umanista potrebbe fare. Entra in dialogo con le famiglie, intuisce le domande e risponde non solo con il ricordare doveri, ma con l’annunciare possibilità e promesse. Non si arrende alle solite obiezioni: cosa si può pretendere dall’uomo e dalla donna? La cultura è cambiata, la Chiesa deve adeguarsi, altrimenti resta tagliata fuori dalla storia, e verrà abbandonata dai suoi figli. A partire dai costumi praticati, ne propone uno da praticare nella logica umana e cristiana dell’amore, che è la ragion d’essere sposi, genitori, educatori. Nell’orizzonte dell’amore, la Lettera conduce a unità l’intero discorso teologico ed etico sul matrimonio e famiglia. L’etica dell’amore non è senza norme, ma queste trovano la sintesi e il compendio nell’amore che, prima di essere comandato, è donato dall’alto.

La Lettera raggiunge la famiglia così come è, perché diventi quello che ancora non è nel disegno di Dio. Vuole essere buona novella per le coppie che camminano speditamente, ma anche e soprattutto per quelle che faticano a intraprendere e a perseverare sulla strada del bene, del vero e del bello. La Lettera «mostra il tesoro della verità cristiana sulla famiglia» e, per questo, ricorda i grandi Documenti ai quali fa riferimento, ma subito confessa che le sole testimonianze scritte non bastano, sono necessarie le testimoniate vissute. «Ben più importanti sono quelle vive […]. È soprattutto ai testimoni che, nella Chiesa, è affidato il tesoro della famiglia: a quei padri e a quelle madri, figli e figlie, che attraverso la famiglia hanno trovato la strada della loro vocazione umana e cristiana». E aggiunge con soddisfazione: «Nella nostra epoca, come nel passato, non mancano testimoni del “Vangelo della famiglia”, anche se non sono conosciuti o non sono stati proclamati santi dalla Chiesa ». Il futuro della famiglia si fonda sulla Buona novella annunciata, ma soprattutto sulla Buona novella testimoniata da tante famiglie – la maggioranza – che vivono, nonostante prove e difficoltà, nella verità dell’amore, che è la vera e unica strada della felicità dentro e fuori la propria casa.

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