Il numero di Famiglia Cristiana in edicola e quello successivo offrono a tutti una straordinaria esclusiva: la biografia di Giovanni Paolo II scritta dal professor Andrea Riccardi, storico e fondatore della comunità di Sant'Egidio, nonché personaggio del mondo cattolico italiano che seppe essere molto vicino al Papa polacco.
Un'offerta straordinaria
Giovanni Paolo II - La biografia era apparso solo qualche mese
fa in edizione originale per le Edizioni San Paolo. Il nostro
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al giornale, in una comoda edizione in due volumi, di facile
lettura e agile consultazione. E' la storia più completa e autorevole
della vita e del papato di Karol Wojtyla. Puoi richiederla in edicola,
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Ma c'è un sistema ancora più semplice.
Negli altri articoli, due anticipazioni dal volume di Riccardi.
I brani qui pubblicati
sono tratti dal volume
di Andrea Riccardi
"Giovanni Paolo II - La
biografia"
(Edizioni San Paolo,
560 pagine,
24 euro).
Giovanni Paolo II è una grande figura
del Novecento, di cui esprime appieno
la storia. È anche un personaggio
del Duemila: si è spento a nuovo secolo
già iniziato e la sua eredità religiosa continua
a essere un riferimento. Testimone del
complesso crocevia polacco e protagonista
della scena mondiale per 27 anni, è stato un
personaggio decisivo della vicenda religiosa
contemporanea, ma anche un leader che ha
collocato la Chiesa nel cuore della storia.
Ai suoi funerali sono accorsi i grandi della
Terra, assieme a tanta gente. Un simile interesse
per un Papa è rivelatore di come Giovanni
Paolo II abbia rappresentato una personalità
decisiva per la sua Chiesa, per i cristiani,
ma anche sia stato un leader globale
che ha toccato le fibre di tanti mondi.
Una volta eletto Papa, nell’ottobre 1978, si
è misurato con la crisi del cattolicesimo, con
un Occidente secolarizzato e con un marxismo
dai tanti volti. Tutti ricordano il suo primo
messaggio: «Non abbiate paura!». Ha, infatti,
creduto nella forza delle energie religiose
e spirituali della sua Chiesa e dell’umanità,
anche nel confronto con sistemi politici
che avevano a disposizione “armi” di ben altro
tipo e molto più potenti. Benedetto XVI
mi ha detto di papa Wojtyla: «Veniva da un
popolo sofferente, quello polacco, sottoposto
a tante prove nella sua storia. Da questo
popolo sofferente, dopo tante persecuzioni,
si sviluppa la forza di sperare».
Karol Wojtyla ha rappresentato la “forza
di sperare” agli occhi dei cristiani e dei suoi
contemporanei. Una volta eletto Papa, questa
forza si è confrontata con scenari sempre
più vasti, spesso difficili e contrastati, in cui
il Papa non ha avuto timore di immergersi.
Non si è rassegnato al declino della Chiesa e
del mondo religioso, previsto come inevitabile
da parte consistente del pensiero del Novecento.
Anzi ha intuito, in controtendenza, come
le religioni in tutto il mondo conoscessero
una rinascita, seppure complessa.
Per più di 10 anni Giovanni Paolo II si è
misurato con il comunismo, sino alla caduta
del Muro. È stato un Papa “vincitore” nel
confronto con l’impero sovietico a cui, negli
anni ’70 e ’80, la maggior parte degli osservatori
attribuiva una lunga vita. Quindi, Papa
politico? Chi ha presente la dimensione
spirituale, l’aspetto mistico e la preghiera di
Wojtyla non può che dire il contrario: la fede
è stato il cuore di un pontificato incentrato essenzialmente
nella comunicazione del messaggio
del Vangelo su tutte le latitudini.
Eppure, Giovanni Paolo II era convinto
che il cristianesimo rappresentasse una forza
di liberazione dell’uomo e dei popoli: centrato
sulla dimensione spirituale, il cristianesimo
poteva giungere a trasformare in qualchemodo
la storia delle nazioni. Questa è stata
anche la vicenda della “liberazione” della Polonia dal comunismo, in cui il Papa ha giocato
un ruolo di primo piano.
Nel 2003, ormai anziano e malato, Karol
Wojtyla, rispettato dai leader di tutto il mondo,
dice al corpo diplomatico radunato in Vaticano:
«Ma tutto può cambiare. Dipende da
ciascuno di noi. Ognuno può sviluppare in
sé stesso il proprio potenziale di fede. È dunque
possibile cambiare il corso degli eventi».
Questa è stata la sua fiducia.
Certamente papa Wojtya, il “vittorioso”,
conosce anche sconfitte e smentite: la guerra
e la violenza (dall’Irak al Ruanda), il rifiuto
del suo messaggio sulla vita, la resistenza ad
accogliere la sua predicazione fin nella Polonia
postcomunista. Ma sa che non esiste una
vittoria stabile in un mondo complesso e globale.
La sua vita è stata una lotta, vissuta con
tenacia. La lotta è una dimensione essenziale
per comprendere il suo ministero, ancorché
vissuta con una sostanziale serenità.
Karol Wojtyla ha operato su scenari differenti,
dalla Polonia a Roma e al mondo intero.
Tuttavia la sua storia non conosce forti
fratture esistenziali, è abitata da una profonda
continuità che viene dall’interiorità di credente
e dalla sua intelligenza, sempre desiderosa
di conoscere uomini e situazioni. Titolare
di un alto magistero, sino alla fine resta interessato
ad apprendere dall’incontro con gli
altri. L’amico polacco Jerzy Turowicz afferma:
«Per quanto sia il capo della Chiesa cattolica,
un cittadino universale e un europeo,
nondimeno non ha cessato di essere un polacco
e un cracoviano».
Un cracoviano? Per comprendere la sua vicenda
e l’impatto del suo pontificato bisogna
ripercorrerne la biografia, che s’intreccia con
vicende storiche quanto mai travagliate. Lo
storico polacco Bronislaw Geremek ha così
espresso una grande tradizione storiografica
europea: «La storia è un misto di scienza e di
poesia». Ricostruire la vicenda di Karol Wojtyla,
lunga e articolata, richiede non solo «scienza
» (e tanti archivi non sono ancora aperti),
non solo capacità d’interpretazione e di narrazione,
ma anche penetrazione nella cultura
e nelle vibrazioni interiori del personaggio,
nonché consapevolezza delle energie spirituali
da lui messe in movimento.
Ho sentito la responsabilità e la gioia di
scrivere questo libro per la grandezza e il significato
della figura di Giovanni Paolo II.
Non si scrive, però, per fare un monumento,
bensì per comprendere, per avvicinarsi a un
personaggio e al suo tempo, per capire di più
la storia della nostra epoca.
Al termine di questo libro, consapevole
della complessità della vicenda di Karol
Wojtyla, del suo tempo e della sua Chiesa, faccio
mie le parole del grande pensatore russo
Pavel Florenskij: «Scrivo e so di disperdermi,
perché non posso dire in una volta sola tutto
ciò che si affolla nella mia coscienza».
Andrea Riccardi
I brani qui pubblicati
sono tratti dal volume
di Andrea Riccardi
"Giovanni Paolo II - La
biografia"
(Edizioni San Paolo,
560 pagine,
24 euro).
C’è un aspetto carismatico del pontificato
legato ai viaggi e all’incontro
con la gente. Spesso questi viaggi sono
veri peripli tra diversi Stati. In tali
occasioni Giovanni Paolo II presiede liturgie,
incontra varie categorie di fedeli, le autorità
politiche, i non cattolici, gli esponenti della
cultura. Tiene numerosi discorsi. Riflette sulle
caratteristiche del Paese, elaborando talvolta
una specie di teologia della nazione.
Molti sono stati i viaggi difficili. Un caso
particolare è quello di Timor Est, ex colonia
portoghese occupata dagli indonesiani, che
non gradiscono la visita del Papa in una regione
molto cattolica che reclama l’indipendenza.
Arrivandoci nel 1989, Giovanni Paolo
II non bacia la terra come fa abitualmente all’inizio
di una visita in uno Stato e chiede
che gli sia portato un crocifisso da baciare
scendendo dalla scaletta dell’aereo. L’atto
viene impedito dalla Polizia. Il Papa allora
pretende di inginocchiarsi di fronte al crocifisso,
una volta entrato in chiesa.
La vicenda dei viaggi di Wojtyla è un capitolo
lungo, ancora da indagare. Un diplomatico
italiano così descrive l’impatto del viaggio
del Papa nel complesso Madagascar del 1989:
«La sua presenza e la sua parola hanno avuto
un’eco che, irradiandosi ben oltre la comunità
dei cattolici (30 per cento circa), ha in qualche
modo coinvolto l’intera popolazione malgascia.
E ciò perché, in un Paese che soffre di
emarginazione dal contesto politico ed economico
internazionale il Papa ha saputo toccare
corde sensibili dell’anima popolare, testimoniando
la solidarietà della Chiesa universale,
la sua partecipazione al dramma della
miseria». Con il viaggio il Papa ridà dignità ai
cattolici, facendoli sentire nel cuore della
Chiesa e sotto i riflettori dell’attenzione mondiale.
Altre volte dà dignità a un’intera comunità
nazionale. I viaggi richiedono un’intensa
preparazione organizzativa.
Il Papa spesso pronuncia i discorsi nella
lingua del Paese. Grazie al polacco, ha una
familiarità con le lingue slave, che riesce a
leggere e in cui si esprime un po’. Parla il tedesco,
appreso dal padre; ha studiato l’inglese
a scuola; si muove sempre meglio con l’italiano,
conosciuto nel primo soggiorno a Roma
nel 1946; parla bene il francese. All’epoca
dello studio di san Giovanni della Croce, ha
letto i testi del mistico in spagnolo; prima del
viaggio a Puebla si mette a studiarlo di nuovo.
Lo stesso fa nel 1980, prima del viaggio in
Brasile, con il portoghese. La sua capacità linguistica
è forte, tanto che non teme di cimentarsi,
magari solo imparando a leggere, con
le lingue più diverse, come il giapponese. Ama molto, per Natale e Pasqua, fare gli auguri
in tutte le lingue, in mondovisione, dalla
loggia centrale di San Pietro.
La geografia è tutt’altro che secondaria per
un Papa che ama sottolineare le varietà dei
popoli. Tra l’altro tiene sempre a portata di
mano un grande atlante con i nomi dei Paesi
e delle diocesi, che guarda di tanto in tanto.
Attraverso il viaggio, Giovanni Paolo II
vuole mostrare l’unità del mondo cattolico
nella diversità, ma anche il suo interesse
per differenti popoli e culture. Paolo VI, con
l’avanzare dell’età, otto anni prima della
morte, interrompe gli spostamenti fuori dell’Italia.
Giovanni Paolo II non li sospende
nemmeno quando è sfinito dalla malattia.
Continua a viaggiare con una tenacia rivelatrice
di quanto le sue visite siano parte essenziale
del “mestiere” di Papa.
Nel 1980 in Zaire il Papa dice a questo proposito:
«Pensano che il Papa dovrebbe viaggiare
di meno. Dovrebbe stare a Roma come
prima. È un consiglio che mi sento dare spesso,
o che leggo nei giornali. Ma la gente di
qui dice: “Ringraziamo il Signore perché sei
venuto, perché puoi imparare a conoscerci
soltanto venendo da noi. Come potresti essere
il nostro pastore senza conoscerci?”. Questo
mi conferma nella convinzione che è tempo
per il vescovo di Roma di diventare il successore
non soltanto di Pietro ma anche di
Paolo, che, come ben si sa, non riusciva a
star fermo un minuto ed era sempre sul piede
di partenza».
È un’importante spiegazione dell’idea di
viaggio di Giovanni Paolo II, espressiva del fortissimo
bisogno spirituale e fisico di incontrare
e di lasciarsi incontrare, di vedere e di farsi
vedere, insomma di una comunione più sensibile.
Non si può essere pastore senza conoscere
ed essere conosciuto. Wojtyla ha detto: «La
Chiesa, per mezzo del suo capo visibile, si
cala nelle situazioni proprie delle varie nazioni,
rispondendo così al desiderio vivissimo
che nasce in seno a quelle nazioni».
Il primo viaggio wojtyliano in America latina
tocca tre Paesi: la Repubblica Dominicana,
il Messico e le Bahamas. Il Papa affronta
molte difficoltà, come è stato detto: nel Messico
laico – così sembra – il presidente della
Repubblica avrebbe ignorato la presenza del
Papa. Il viaggio è, invece, un successo e costituisce
un modello per i successivi.
Wojtyla, a differenza di Montini (che quasi
sempre non visitava i capi di Stato nelle residenze
ufficiali, per sottolineare il carattere
religioso della sua presenza), si reca a trovare
le autorità negli edifici ufficiali. Il Papa lo
fa per motivi di opportunità (così in Turchia),
ma anche come omaggio alla nazione
rappresentata dalle autorità.
Andrea Riccardi