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mercoledì 14 maggio 2025
 
Cabrini
 

Chissà come sarebbe finita se quel rigore fosse entrato

10/06/2014  Ha vissuto, nella stessa partita, il peggiore incubo e il sogno più grande. Cabrini racconta tormento ed estasi della finale di Spagna 1982. Da cui è tornato campione del mondo.

E' fuori. Fuori. Fuori... Per chi l’ha visto in Tv quel rigore, con la palla che sfila alla sinistra della porta di Toni Schumacher, è stato soprattutto un suono: la voce desolata di Nando Martellini. Per chi l’ha tirato, l’incubo peggiore che un calciatore possa evocare. «Nino non aver paura di tirare un calcio di rigore, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore...».
Ditelo a uno che si chiama Antonio e che ne ha sbagliato uno in finale mondiale, nel primo tempo, sullo 0-0. Eppure Antonio Cabrini considera quella canzone la più bella mai scritta e ai versi di De Gregori rende omaggio, intitolando il suo libro, appena uscito per Bur Rizzoli, Non aver paura di tirare un calcio di rigore.

Antonio Cabrini e Claudio Gentile festeggiano un gol dell'Italia nella finale dei Mondiale del 1982 contro la Gemania. ANSA
Antonio Cabrini e Claudio Gentile festeggiano un gol dell'Italia nella finale dei Mondiale del 1982 contro la Gemania. ANSA

- Cabrini, questo titolo vuol dire che ha fatto pace con quell’errore?
«Farci pace non è l’espressione adatta. Col tempo ho capito di aver avuto in mano una medaglia a due facce: di qua l’occasione di giocare una finale mondiale, di là il mio errore. Ho sbagliato, abbiamo vinto lo stesso. Ora so che ciò che conta è reagire, per non farsi condizionare dal timore di sbagliare ancora».

- Ha corso quel rischio?
«No, avrei avuto qualche problema in più se non avessimo vinto il Mondiale. Mi ritengo fortunato».

- Baggio ha detto che ogni volta che rivede il suo rigore sbagliato in finale nel 1994, sogna che il filmato finisca diversamente. Capita anche a lei?

«No, un po’ perché so che è finita bene, un po’ perché mi rendo conto che quell’errore mi ha dato in più una popolarità affettuosa: mi fermano ancora per strada per chiedermi che cosa io abbia provato in quel momento. E poi mi dico spesso che se quel rigore fosse entrato la storia di quella partita sarebbe cambiata e chissà come sarebbe finita».

- Intendeva questo Bearzot, quando nell’intervallo, per tirarla su, le disse: «Hai capito che dopo il tuo errore questa partita non la perdiamo più?».
«Mi capita spesso, davanti alla Tv, di prevedere con qualche attimo di anticipo se una certa azione finirà in rete oppure no. È l’istinto puro di chi ha macinato molto calcio, credo che anche lui in quel momento abbia avuto questo istinto. Sentiva che avremmo vinto, come il cane che capta un odore da lontano. Nello sport l’intuito conta: la differenza tra un campione e un buon calciatore sta soprattutto nella capacità di “leggere” il gioco prima degli altri».

- Da fuori, Argentina 1978 parve una spedizione quasi scanzonata, Spagna 1982 un Mondiale in stato d’assedio. Lei c’era. È andata davvero così?
«Erano due gruppi diversi, ma la vittoria dell’82 è figlia del ’78. L’Italia d’Argentina era fisicamente più forte, l’altra più cinica e razionale. Nel ’78 siamo arrivati quarti, capendo troppo tardi che avremmo potuto fare di più».

- Bearzot in Spagna seppe sfruttare la tensione. Anche Lippi ha fatto qualcosa di simile nel 2006. L’Italia per vincere deve sentirsi sola contro tutti?
«Forse è una faccia del miracolo italiano, diamo il meglio di noi nel difficile, quando non c’è niente da perdere».

- Il suo amico Cesare Prandelli, però, non sembra il tipo da “fortino”...

«No, direi che anzi è riuscito a riportare entusiasmo attorno a una squadra che aveva toccato il fondo in Sudafrica. Questo è un Mondiale molto difficile sul piano fisico, diverso dagli altri: meno polemico, ma più enigmatico, con un’Italia che potrebbe con altrettanta probabilità fare poco o tantissimo».

- Lei conosce Prandelli da sempre, se lo immaginava ct dell’Italia?
«Non sapevamo dove sarebbe arrivato, ma già da giocatore aveva qualità umane da allenatore, che lasciavano presagire quello sbocco come naturale».

- Bearzot era davvero speciale?
«Era un friulano, rigido ma bravissimo a creare gruppo. In Argentina ha unito una Nazionale che era metà Juve e metà Torino, in Spagna si è preso tutte le responsabilità alleggerendo la squadra: sembrava un don Chisciotte con lo scudo pronto a respingere assalti alla testa di un’armata Brancaleone».

- Quando avete capito che avreste potuto vincere?
«Una partita per volta. Ma è stato dopo il Brasile che abbiamo cominciato a credere di poter arrivare ovunque».

- Cabrini aveva 25 anni, era campione del mondo e “fidanzato d’Italia”: c’era il rischio di perdere la testa?
«Sì, già dopo l’Argentina. Credo che conti l’educazione ricevuta in famiglia e, dopo, nel calcio, da Trapattoni soprattutto. Mi ha salvato voler dimostrare a me stesso che non mi sarei perso».

 
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