Un viaggio, a parole, nel teatro di una memoria
prodigiosa. Se non l’avesse, AlfioCaruso non potrebbe raccontare come fa
in Un secolo azzurro. Cent’anni di Nazionale,
incastonati in cento e più anni di storia
d’Italia con la “S” maiuscola, dove il
calcio non è mai soltanto calcio e dove il
resto può far finta di ignorare l’azzurro,
ma non evitare di specchiarvisi.
Perché così è la vita in un Paese in cui, come diceva
Churchill, si va alla guerra come alla partita di
calcio e allo stadio come alla guerra.
E infatti: «In
Italia i lettori ti perdonano se sbagli l’anno della
morte di Kennedy, ma il giorno in cui, a trent’anni
di distanza, ho sbagliato un nome nella formazione
del Modena del 1931, mi sono arrivate quattro lettere.
Un paradosso, con più di un prezzo. Con quello
stile, abbiamo mandato al massacro, non solo nella
Seconda guerra mondiale, centinaia di migliaia di
ragazzi e non riusciamo a guarire dalla violenza degli
stadi. Gli inglesi hanno debellato gli hooligans e
frequentano stadi senza barriere, mentre noi siamo
fermi ai ricatti delle tifoserie organizzate».
Incapaci di cambiare
Gli italiani danno calcisticamente
e storicamente il meglio di sé, più o meno
metaforicamente, asserragliati in un fortino assediato:
«È nella nostra natura, Guicciardini diceva
che bisogna sempre diffidare degli italiani perché
sono quelli dell’emergenza, anche se, a forza di camminare
sull’orlo del burrone, prima o poi magari ci
caschiamo. Però è vero che abbiamo bisogno di sentirci
uno contro tutti. È accaduto ai Mondiali del
1938 e del 2006, dove però c’è stata in qualche modo
una progressione, un crescendo rossiniano. Ma è
nel 1982 che l’avvio rabbrividente, lo dico con il
senno di poi, ha fatto il gioco di Bearzot, cultore
del “maso chiuso”, dell’appartenenza al gruppo, fino
al silenzio stampa. Anche se, dopo aver curato la
psicologia, poi bisogna correre, e certamente ha inciso
il ritiro al fresco nel Nord della Spagna, mentre
gli avversari cuocevano al caldo torrido. E poi c’era
la carnitina che il professor Vecchiet aveva riportato
da un convegno di studi negli Stati Uniti».
La sostanza, mai proibita, ebbe in quei giorni il
suo momento di gloria mediatica, ridimensionata
da studi recenti che la dicono potenzialmente rischiosa
in assenza di carenze e probabilmente ininfluente
ai fini della pratica sportiva. Magari avrà
funzionato l’effetto placebo. Ma non è lì, nella speranza
dell’aiutino, pur lecito, che siamo stati, come
dice Caruso, «campioni del mondo, ma italiani fino
in fondo». Narra la leggenda, e Caruso lo racconta,
che, forse per eludere qualche dogana, sull’aereo
presidenziale assieme agli azzurri, impegnati con
Pertini nel celeberrimo scopone, abbiano viaggiato
anche i 300 mila dollari del premio dello sponsor.
L'italia chiamò
Convinto con Nereo Rocco «che nessuna
Coppa e nessun campionato per club valga per
un allenatore quanto un titolo vinto per il tuo Paese
», a Caruso il Mondiale di Spagna è rimasto nel
cuore: «Quaranta mila italiani avvolti nel tricolore
fino ad allora vituperato, dimenticato, nella migliore
delle ipotesi accantonato, sono stati l’immagine
indelebile di quei giorni. Mi viene in mente la scena
dell’inno, al momento del quale fino ad allora tutti
si fingevano affaccendati in qualcosa per non doversi
alzare in piedi: al vecchio Bernabeu per la prima
volta a mia memoria provarono a cantarlo, “Fratelli
d’Italia, l’Italia s’è desta...” e poi bum, vuoto improvviso.
Nessuno a parte Pertini ricordava le parole».
Il racconto non è mai tutta epopea, la retorica,
fosse anche quella del tempo andato, non appartiene
alle nostre corde, Caruso lo sa e ammette che
non è esistito mai l’azzurro senza tenebra: «Io credo
che il primo scandalo sia stato con la prima partita
di calcio, è come l’età dell’oro di cui parlano i siciliani:
mai stata l’era dei leoni e dei gattopardi, sempre
e solo iene e sciacalli».
Eppure non riesce a smettere d’amarli, la Sicilia
e il pallone: «Con il calcio ho un debito di storie. La
notte con Alfredo Di Stefano: aveva già smesso di
giocare, mi ricevette alle due di mattina e alle cinque
si fece un’ora di giri di campo al Bernabeu. L’alba
con Puskas sulla spiaggia di Roseto degli
Abruzzi: era già grosso come un otre, aveva mangiato
e bevuto quantità per le quali sarei morto. Vide
una palletta spuntare da non so dove. Tic, tic, tic
al 150° palleggio, mi guardò: “Che faccio mi fermo?”.
Per questo mi appassiono e me la prendo ancora».
Malgrado le apparenze
Caruso crede che il calcio
d’oggi sia meno sporco che in altri tempi: «Nei finali
di campionato, in cui s’è visto di tutto in passato,
nessuno più regala niente. Si comincia a temere la
squalifica. Certe lezioni sono servite. Tutti i campionati
che ricordo hanno prodotto alla fine risultati
non ingiusti, anche se magari ci sono arrivati per
vie traverse, per le strade tortuose di campagna anziché
per la retta via. Poi certo, la cultura del sospetto
fa parte di noi, siamo pur sempre figli dell’Inquisizione.
Però, anche se i tifosi rifiutano di accettarlo,
c’è un limite. Moggi non era l’unico, ma ha esagerato:
va bene distribuire le carte del mazzo, ma non
puoi pretendere di taroccare prima il mazzo».
Nella sua Nazionale di tutti i tempi Caruso mette
Gigi Buffon, Burgnich, Nesta, Franco Baresi,
Paolo Maldini, Conti, Pirlo, Tardelli, Rivera, Vieri
e Riva. Sa che quella è la croce cui l’appenderanno:
«Inevitabile, sono di più quelli che mancano. Un
mio amico perfido insinua che io abbia scritto tutto
il libro per quell’ultima mezza pagina. Noooo, troppa
fatica». A Maradona non piacerà, ma Caruso vota:
«Pelè tutta la vita, dirò di più: tra lui e Maradona
ci metto pure Di Stefano. Pelè ha dato tutto fino a
quarant’anni, Maradona ha smesso a 31 e va preso a
metà, solo per ciò che di splendido ha dato in campo.
Fuori si è sempre venduto come uno che sfidava
i potenti. Ma quando mai? Non si è certo schierato
contro i Giuliano. E potenti lo erano eccome».
E l’Italia di oggi? «Mi piace. Forse non vincerà i
Mondiali perché in Brasile vince sempre il Brasile,
ma è fatta da persone serie».