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sabato 14 settembre 2024
 
 

Cent'anni di azzurritudine

18/06/2014  Alfio Caruso, saggista, profondo conoscitore dell'Italia e del pallone, racconta i retroscena di Un secolo azzurro: la storia d'Italia riletta attraverso la Nazionale. "Churchill diceva: mi piacciono gli Italiani, vanno alla partita come alla guerra e alla guerra come alla partita".

Un viaggio, a parole, nel teatro di una memoria prodigiosa. Se non l’avesse, AlfioCaruso non potrebbe raccontare come fa in Un secolo azzurro. Cent’anni di Nazionale, incastonati in cento e più anni di storia d’Italia con la “S” maiuscola, dove il calcio non è mai soltanto calcio e dove il resto può far finta di ignorare l’azzurro, ma non evitare di specchiarvisi. Perché così è la vita in un Paese in cui, come diceva Churchill, si va alla guerra come alla partita di calcio e allo stadio come alla guerra.
E infatti: «In Italia i lettori ti perdonano se sbagli l’anno della morte di Kennedy, ma il giorno in cui, a trent’anni di distanza, ho sbagliato un nome nella formazione del Modena del 1931, mi sono arrivate quattro lettere. Un paradosso, con più di un prezzo. Con quello stile, abbiamo mandato al massacro, non solo nella Seconda guerra mondiale, centinaia di migliaia di ragazzi e non riusciamo a guarire dalla violenza degli stadi. Gli inglesi hanno debellato gli hooligans e frequentano stadi senza barriere, mentre noi siamo fermi ai ricatti delle tifoserie organizzate».

Incapaci di cambiare

Gli italiani danno calcisticamente e storicamente il meglio di sé, più o meno metaforicamente, asserragliati in un fortino assediato: «È nella nostra natura, Guicciardini diceva che bisogna sempre diffidare degli italiani perché sono quelli dell’emergenza, anche se, a forza di camminare sull’orlo del burrone, prima o poi magari ci caschiamo. Però è vero che abbiamo bisogno di sentirci uno contro tutti. È accaduto ai Mondiali del 1938 e del 2006, dove però c’è stata in qualche modo una progressione, un crescendo rossiniano. Ma è nel 1982 che l’avvio rabbrividente, lo dico con il senno di poi, ha fatto il gioco di Bearzot, cultore del “maso chiuso”, dell’appartenenza al gruppo, fino al silenzio stampa. Anche se, dopo aver curato la psicologia, poi bisogna correre, e certamente ha inciso il ritiro al fresco nel Nord della Spagna, mentre gli avversari cuocevano al caldo torrido. E poi c’era la carnitina che il professor Vecchiet aveva riportato da un convegno di studi negli Stati Uniti». La sostanza, mai proibita, ebbe in quei giorni il suo momento di gloria mediatica, ridimensionata da studi recenti che la dicono potenzialmente rischiosa in assenza di carenze e probabilmente ininfluente ai fini della pratica sportiva. Magari avrà funzionato l’effetto placebo. Ma non è lì, nella speranza dell’aiutino, pur lecito, che siamo stati, come dice Caruso, «campioni del mondo, ma italiani fino in fondo». Narra la leggenda, e Caruso lo racconta, che, forse per eludere qualche dogana, sull’aereo presidenziale assieme agli azzurri, impegnati con Pertini nel celeberrimo scopone, abbiano viaggiato anche i 300 mila dollari del premio dello sponsor.

L'italia chiamò

  

Convinto con Nereo Rocco «che nessuna Coppa e nessun campionato per club valga per un allenatore quanto un titolo vinto per il tuo Paese », a Caruso il Mondiale di Spagna è rimasto nel cuore: «Quaranta mila italiani avvolti nel tricolore fino ad allora vituperato, dimenticato, nella migliore delle ipotesi accantonato, sono stati l’immagine indelebile di quei giorni. Mi viene in mente la scena dell’inno, al momento del quale fino ad allora tutti si fingevano affaccendati in qualcosa per non doversi alzare in piedi: al vecchio Bernabeu per la prima volta a mia memoria provarono a cantarlo, “Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta...” e poi bum, vuoto improvviso. Nessuno a parte Pertini ricordava le parole». Il racconto non è mai tutta epopea, la retorica, fosse anche quella del tempo andato, non appartiene alle nostre corde, Caruso lo sa e ammette che non è esistito mai l’azzurro senza tenebra: «Io credo che il primo scandalo sia stato con la prima partita di calcio, è come l’età dell’oro di cui parlano i siciliani: mai stata l’era dei leoni e dei gattopardi, sempre e solo iene e sciacalli».
Eppure non riesce a smettere d’amarli, la Sicilia e il pallone: «Con il calcio ho un debito di storie. La notte con Alfredo Di Stefano: aveva già smesso di giocare, mi ricevette alle due di mattina e alle cinque si fece un’ora di giri di campo al Bernabeu. L’alba con Puskas sulla spiaggia di Roseto degli Abruzzi: era già grosso come un otre, aveva mangiato e bevuto quantità per le quali sarei morto. Vide una palletta spuntare da non so dove. Tic, tic, tic al 150° palleggio, mi guardò: “Che faccio mi fermo?”. Per questo mi appassiono e me la prendo ancora».

Malgrado le apparenze

Caruso crede che il calcio d’oggi sia meno sporco che in altri tempi: «Nei finali di campionato, in cui s’è visto di tutto in passato, nessuno più regala niente. Si comincia a temere la squalifica. Certe lezioni sono servite. Tutti i campionati che ricordo hanno prodotto alla fine risultati non ingiusti, anche se magari ci sono arrivati per vie traverse, per le strade tortuose di campagna anziché per la retta via. Poi certo, la cultura del sospetto fa parte di noi, siamo pur sempre figli dell’Inquisizione. Però, anche se i tifosi rifiutano di accettarlo, c’è un limite. Moggi non era l’unico, ma ha esagerato: va bene distribuire le carte del mazzo, ma non puoi pretendere di taroccare prima il mazzo». Nella sua Nazionale di tutti i tempi Caruso mette Gigi Buffon, Burgnich, Nesta, Franco Baresi, Paolo Maldini, Conti, Pirlo, Tardelli, Rivera, Vieri e Riva. Sa che quella è la croce cui l’appenderanno: «Inevitabile, sono di più quelli che mancano. Un mio amico perfido insinua che io abbia scritto tutto il libro per quell’ultima mezza pagina. Noooo, troppa fatica». A Maradona non piacerà, ma Caruso vota: «Pelè tutta la vita, dirò di più: tra lui e Maradona ci metto pure Di Stefano. Pelè ha dato tutto fino a quarant’anni, Maradona ha smesso a 31 e va preso a metà, solo per ciò che di splendido ha dato in campo. Fuori si è sempre venduto come uno che sfidava i potenti. Ma quando mai? Non si è certo schierato contro i Giuliano. E potenti lo erano eccome». E l’Italia di oggi? «Mi piace. Forse non vincerà i Mondiali perché in Brasile vince sempre il Brasile, ma è fatta da persone serie».

 
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