Don Aldo Rabino. Nella foto in alto: il cappellano del Torino con l'ex allenatore granata Emiliano Mondonico.
Ciro Immobile, capocannoniere della
Serie A, che si propone per leggere le preghiere dei fedeli. Alessio
Cerci, primo nella classifica assist-man del campionato, che finita
la Messa si avvicina, «Don, facciamo una foto insieme?». Matteo
Darmian che, poco prima di partire per il Brasile con la Nazionale,
chiede una piccola croce di legno da portare al collo. Calcio e fede, partite e
liturgie, preghiera e allenamenti: ecco la particolarissima missione
di don Aldo Rabino, da 43 anni cappellano "ufficiale" del
Torino Calcio.
Ufficiale per modo di dire: «non ho ricevuto alcuna
nomina dal Vescovo: è stata la società a chiamarmi». E di fatto il
Toro è diventato quasi la sua parrocchia: le domeniche in cui la
squadra non è in trasferta don Aldo celebra l'Eucarestia con i
calciatori e lo staff. In varie occasioni, poi, incrocia la vita
degli sportivi, cominciando dagli aspetti più concreti, da quella
«catechesi dei piccoli gesti» imparata alla scuola di don Bosco.
Una presenza discreta ma tenace, la sua. Un'esperienza unica nel
calcio italiano (almeno in quello dei grandi club), resa possibile da
una serie di circostanze favorevoli. Non solo. Secondo il sacerdote
«la storia del Toro, assolutamente unica, è quasi una metafora
della vita», con le sofferenze e i momenti di splendore, le batoste
e le sudate vittorie.
La squadra del Torino si reca a Superga, per rendere omaggio e per pregare per le vittime della tragedia avvenuta il 4 maggio 1949.
Ascoltando la storia di don Aldo
verrebbe da pensare a una specie di "predestinazione". Il 4
maggio del '49, lui è stato tra le ultime persone a scorgere l'aereo
che riportava a casa il Grande Torino, poco prima dell'incidente
contro la collina di Superga, una tragedia impressa ancora oggi nella
memoria collettiva. «Facevo quarta elementare ed ero, già allora,
un tifoso granata. In quel periodo mi trovavo in colonia a Loano, in
Liguria. Alle 16,15 una giovane assistente, che aveva una simpatia
per il calciatore Rigamonti, ci disse di alzare gli occhi: "Guardate,
quello potrebbe essere l'aereo del Toro". Era vero: ho potuto
verificarlo anni dopo, confrontando i dati relativi alla rotta del
velivolo».
Crescendo, il giovane Aldo dimostra un notevole talento
per il calcio e inizia a militare nello Spartanova, un vivaio che in
quegli anni poteva rappresentare la via d'accesso a squadre di prima
grandezza, come il Torino e la Juventus. Nel '55 viene perfino
convocato per un'amichevole da disputare prima di Italia -
Iugoslavia. Ma è proprio in quel periodo che arriva ben altra
"convocazione": «per me l'oratorio era tutto: lì riuscivo
a respirare la pienezza di vita». Ecco allora la scelta: non
calciatore, ma prete salesiano.
Inizia così un lungo cammino, nel
quale Vangelo e sport procedono fianco a fianco: la missione in Mato
Grosso (Brasile), dove don Aldo è stato di persona alla fine degli
anni '60 e che tutt'ora segue attraverso l'associazione O.a.s.i., ma
anche l'impegno con generazioni di giovani, dentro e fuori
l'oratorio, sui campi di calcio come nella vita quotidiana. Poi, dal
'71, la singolare esperienza come padre spirituale del Torino
Football Club, sia della prima squadra che dei settori giovanili.
Da sinistra: Alessio Cerci e Ciro Immobile. Foto Getty
Le memorie granata di don Aldo sono un
annuario pieno di vita: volti da album di figurine che però hanno
una storia, uno spessore. A volte anche sofferenze che non trapelano
all'esterno. In 43 anni sono nate amicizie durature con grandi
calciatori, da Pulici a Zaccarelli, da Sala a Comi, tanto per citarne
qualcuno. Oggi tutto sembra più faticoso. «Il calcio attuale è
solo un lontano parente di quelle che praticavo io. Tante cose sono
cambiate, e non certo in meglio». I problemi sono sotto gli occhi di
tutti: un giro d'affari completamente fuori controllo, calciatori che
diventano milionari nel giro di una stagione, una cultura dell'usa e
getta che crea idoli e un attimo dopo li mette da parte.
«Anche il
continuo avvicendamento dei calciatori all'interno delle squadre non
facilita l'instaurarsi di legami profondi». Ma don Rabino, 75 anni e
l'energia tipica degli atleti di razza, non ha nessuna voglia di
lasciarsi sopraffare dallo sconforto o dalla nostalgia: «Bisogna
andare in profondità, privilegiare sempre il rapporto umano. E
scoprire che i ragazzi non sono affatto vuoti: anzi, tanti di loro
hanno sete di verità e bellezza. Anche con calciatori di altre
religioni e altre culture si riescono a costruire amicizie preziose.
E' solo un po' più difficile, ma si può fare».
Don Aldo Rabino, al centro, con il maglioncino granata, insieme con alcuni ragazzi dell'associazioine Oasi.
Nell'ultima stagione, in campo il Toro
ha ottenuto risultati lusinghieri. «Sotto tanti aspetti è avvenuta
una vera risurrezione - commenta il sacerdote - Anche sul piano umano
si è creato un bel gruppo: giovani solidi, capaci di "fare
spogliatoio"». Forse è questo il segreto: «il Torino mi piace
anche perché ha una tradizione di comunità. La squadra funziona
quando tutti, dal magazziniere all'allenatore, sono consapevoli
dell'importanza del loro ruolo, sono valorizzati e trattati con
rispetto».
Ecco perché «il calcio è oggi l'arma
più forte che abbiamo per incontrare i giovani. E' un'opportunità
incredibile, uno strumento per portare i ragazzi in oratorio. Sul
campo si impara a rispettare tempi, spazi, ruoli. E a faticare. Il
problema è che ci vogliono le persone giuste. Non mercenari, ma
profeti, gente capace di testimoniare anche pagando di persona.
Educatori veri, sull'esempio di don Bosco».