Gianfelice Facchetti è come Obelix, caduto da piccolo nella pozione magica e diventato fortissimo. Gianfelice Facchetti è caduto appena nato nel più bel romanzo sul calcio che la storia annoveri Azzurro tenebra di Giovanni Arpino, tenuto a Battesimo in senso proprio non metaforico, dallo scrittore, è diventato a sua volta scrittore. Anche se per una strada più tortuosa di come l’avevremmo immaginata.
Il calcio l’aveva nei geni: Gianfelice è l’ultimo figlio di Giacinto Facchetti, che di Azzurro tenebra, e dell’infausto Mondiale 1974, è stato protagonista. La voce di Gian Felice, dall’altro capo del telefono, fa un po’ impressione: sempre più simile a quella di quello che per Arpino era “Giacinto Magno”
Gianfelice, c’entra qualcosa tutto questo con il suo essere oggi scrittore, drammaturgo, spesso con un occhio al pallone e alla memoria?
«E’ vero sono stato tenuto a Battesimo realmente e moralmente da Arpino, e ricordo bene l’amicizia che lo legava a mio padre, ma alla scrittura sono arrivato molto dopo, da grande. Anzi, soprattutto dopo la morte di mio padre (nel 2006 ndr.), passando prima per lo sport e, dopo, per il teatro: percorsi miei».
Era molto piccolo, che ricordo ha di suo padre calciatore?
«Vago nel senso che ho dei flash a bordo del campo di allenamento dell'Inter. Ricordo soprattutto la stima della gente mentre andavo in giro con lui, ma ne ho preso coscienza davvero soltanto dopo di lui, attraverso l’ondata di affetto che ci ha investiti. Ricordo il mondiale d’Argentina, (Gian Felice aveva quattro anni): mio padre era stato convocato, ma rifiutò, disse che non si sentiva più pronto per un impegno di quel genere, fu convocato al seguito come capitano non giocatore. Quello che ho colto dopo, è stato, che nella stima che c’era attorno a mio padre ha inciso di certo l’onestà di quel passo indietro, in un Paese in cui nessuno si tira mai indietro da niente».
A che età ha capito di non avere un papà qualunque?
«Presto, anche se devo dire che lui ha fatto tutto il possibile per proteggerci dal personaggio Facchetti, era tutto molto naturale. Capivo dall’affetto delle persone che era stimato».
Se dico Giacinto Facchetti e Mondiali che cosa le viene in mente?
«Italia-Germania 4-3 l’abbiamo rivista insieme, l’ultima volta, quando era a casa già malato e si stava curando. Ricordo che vivevamo come se quella partita di 36 anni prima fosse in corso in quel momento con la stessa tensione. Poco dopo diedero la finale di quel mondiale perso, ricordo che dopo il secondo gol del Brasile, sarebe finita 4-1, spense la Tv, perché non riusciva a vedere oltre».
Lei ha fatto sport, è mai stato difficile portare quel cognome?
«No, perché mio padre ha fatto il possibile per non farlo pesare a nessuno, magari forse in adolescenza quando cerchi la tua strada capisci che è un po’ ingombrante portarsi un cognome così, ma è stato un attimo».
Il suo ultimo libro Se no che gente saremmo, giocare, resistere e altre cose imparate da mio padre Giacinto. Che cosa ha imparato del calcio da suo padre? «Che del talento e delle opportunità si dovrebbe ringraziare, lo ricordo grato al pallone per quello che gli aveva dato».
E’ stato espulso una sola volta in carriera, era uomo di regole: che padre è stato? «Affettuoso, presente. Anche capace di mettersi in discussione se necessario. Sulle regole, per tutti noi, si preoccupava molto che non bevessimo, che non fossimo tentati dagli eccessi».
Che rapporto ha con il romanzo di Arpino, in cui è entrato piccolissimo?
«Gli sono legato. Anche se ero appena nato allora, ho avuto modo crescendo di constatare l’amicizia che legava mio padre ad Arpino, fatta di una consuetudine che con le star del calcio di oggi sarebbe inverosimile: c’era tempo di frequentarsi, di scoprirsi, di annusarsi, di costruire un rapporto di fiducia, tra calciatori e giornalisti, oggi del tutto perduto. Era questo il calcio di mio padre, quello in cui si riconosceva».