In Curia è il più esperto, il più analitico, uno che se gli poni il
problema del 4-4-2 sa cosa vuol dire e ti risponde a tono. Lo sanno
tutti e lui se ne fa anche un pizzico d’orgoglio. Sorride il cardinale
portoghese José Saraiva Martins, fino a due anni fa prefetto della
Congregazione per le cause dei santi. Dicono che se la gioca anche con
il cardinale ex-Segretario di Stato Tarcisio Bertone altro grande
tifoso. Ma della Juve. Lui è laziale, da sempre e per sempre. E vuol più
bene a Papa Francesco, perché, scherza, “tifa una squadra che ha gli
stessi colori bianco celesti della Lazio”. E’ uno che di solito ci
azzecca con i pronostici. Ma questa volta per il Mundial giura che no,
che non fa pronostici.
Metti un pomeriggio a parlar di calcio con uno
che ha scelto la Lazio nel 1953, quando arrivò per studiare teologia a
Roma dal Portogallo, perché era la squadra più debole: “Periferia del
calco, direbbe Papa Francesco oggi”. Saraiva se la ride tra squadre
blasonate e allenatori “che non sono più quelli di una volta”. Sugli
scudi sta solo Josè Mourinho: “E’ l’ultimo dei grandi, anzi un grandissimo,
artista dello schema, flessibile come pochi e come pochi durissimo.
Senza contraddizione. Si sa far obbedire, ma come lui vicino ai
giocatori non ci sa star nessuno”.
Se avanzi il nome di Prandelli si
limita a “mi piace” e poi con una punta di perfidia ti ricorda che nelle
ultime sette partite non ha vinto nulla. Ha dovuto aspettare l'amichevole in Brasile... Per il cardinale il calcio è
gioco d’attacco. Punto e basta. Alla tattica lui non ci bada. Da
ragazzino in Portogallo giocava “centrattacco”, gli altri dovevano
portar su palloni. Se c’è una filosofia che non gli va giù è quella del
catenaccio: “Spero che in Brasile si segni tanto, altrimenti nessuno si
diverte. Il pallone ha una sola destinazione: in rete”.
Boccia Helenio
Herrera e Nereo Rocco, inventori dell’assassino del calcio: “Nove
pedatori che si chiudono in difesa, mi fan star male”. Ma non ci sta a
mettere in croce gli allenatori: “Non mi piace che quando si vince il
merito è del mister e dei giocatori e quando si perde solo del mister”.
E’ l’occasione per tornare alla filosofia: “Il pallone non gira da solo,
il calcio è il più bel gioco perché il collettivo conta più del singolo
e gli schemi possono venir stravolti dalla fantasia”. S’azzarda a dire
che il calcio è lo sport che sta più vicino alla Chiesa: “Provi lei ad
immaginare un oratorio senza campo di calcio”. Poi c’è il resto:
“L’avversario non è un nemico, ma un fratello. Solo due squadre che si
vogliono bene, producono un buon gioco”. Potrebbe andare avanti per ore a
ricordare il passato che gli piace di più del presente, anche se in
Brasile, è convintissimo “ne vedremo delle belle”, perché “è la patria
mondiale del calcio”, perché in Brasile “ a giocare a calcio ci si
diverte”.
Se provi a inserire qualche concetto come quello del “calcio
totale” della grande Olanda dei tempi passati s’illumina con un velo di
tristezza: “Tempi andati, oggi c’è troppo calcolo, troppo schema, ma se
uno ha il guizzo subito lo vedi e te ne innamori”. A proposito di guizzo
è preoccupato per Cristiano Ronaldo, l’asso del suo Portogallo: “Non
sta bene, speriamo si rimetta”. Ma ha una convinzione granitica e qui,
sì, che accetta di fare un pronostico: “La più bella partita del
Mondiale sarà Portogallo-Germania, almeno letta oggi dalle carte”. Cosa
spera, eminenza? “Che non si arrivi a Portogallo Italia, perché sarei in
imbarazzo”. Meglio dunque Brasile-Portogallo? “Sarebbe gioco
grandissimo, scuole portoghesi entrambe, ma con interpretazioni diverse
che sono il sale del gioco, cioè carioca da una parte e europea
dall’altra”. Insomma “calcio totale”.