«Il ricordo comincia con la cicatrice». Giacinto Facchetti cita a libro chiuso. Non ha bisogno di aprirlo per ri cordare la frase che Giovanni Arpino aveva scelto per il frontespizio di Azzurro tenebra. Mai come in questo caso romanzo, ricordo, cicatrici, vita sono fusi in unico flusso. Non capita a tutti di scoprirsi protagonisti di un romanzo, un giorno per caso, senza quasi preavviso. Pensava che tutto fosse finito a Stoccarda 1974, con i cocci di un Campionato del mondo andato in frantumi dopo appena tre partite. «Fa male perdere così: attorno a noi era un brulicare di italiani emigrati a lavorare in Germania. Vedevano in noi lo strumento del loro riscatto. La presero male».
Mai – Corea a parte – l’azzurro aveva teso tanto al nero. Riva, Boninsegna, Rivera, Mazzola e via di seguito. Un bel coro di fischi e tutti a casa. Finita la festa. «Azzurro tenebra mi arrivò nel novembre del 1977, fresco di stampa, con dedica a mano: “A Giacinto, Giovanna, Barbara, Vera, Gianfelice e... Con l’affetto fraterno e l’amicizia – da qui all’eternità – di Giovanni Arpino, il quale riconosce che senza un protagonista come il “capitano”, mai avrebbe scritto questo romanzo”. Mi era stato preannunciato, Arpino aveva rivelato almeno agli amici che le cronache del mondiale, seguito per La Stampa , sarebbero presto sconfinate nella trama di un romanzo. Ma vederlo, averlo, era un’altra cosa».
Non cronaca, letteratura; non foto, ritratti, nella sostanza fedeli: «Bearzot e Arpino avevano davvero quel gusto di scambiarsi dialoghi interi mescolando gli strafalcioni sentiti nelle interviste. Quanto a me, spero mi abbia “preso”: non mi dispiacerebbe somigliare davvero al Giacinto di Arpino». Azzurro tenebra è – ma forse sarebbe meglio dire era, sparito com’è dal mercato – il racconto tenero e ruvido, lirico e ferocemente ironico di un calcio scomparso: Burgnich, Boninsegna, Capello, facce da scena di genere più che da copertina. L’affresco, talora grottesco, della sconfitta si consuma soprattutto attorno al campo: uomini, più che differenza di reti.
Giocatori, tifosi, cronisti sportivi, un po’ primedonne anche loro, sbeffeggiati da quel disincantato esemplare della specie che era Giovanni Arpino. «Anche i giornalisti allora erano personaggi: Gianni Brera chiamava Arpino “il mio Nobel”, erano amicissimi, poi un giorno, per una ragione che non ho mai saputo, tra loro due qualcosa si è rotto. Per me, che andavo d’accordo con entrambi, quello strappo era motivo di disagio, non sapevo come prenderli. Era tutto molto diverso da ora. I giornalisti erano pochi, ci si parlava normalmente, c’era anche tempo di fare amicizia, non esisteva la prassi attuale della conferenza stampa: calciatore che fa il monologo, poi le domande una per uno, gli uni di qua, gli altri di là a distanza di sicurezza. Allora venivano a bordo campo, ti facevano qualche domanda, rispondevi e finiva lì».
Oppure andava avanti tanto che il cronista faceva da padrino all’ultimo nato del calciatore, nella penombra di una cerimonia privata. Arpino sapeva che dopo due figlie avrei desiderato un bambino. Mi diceva: “Vedrai chequesta volta sarà maschio”. “Speriamo, se hai ragione gli farai da padrino”. Nacque Gianfelice». E Arpino fece come promesso. «I divi c’erano, ma erano altrove: al cinema, alla Tv. L’ottanta per cento dei calciatori dei miei tempi non ha mai avuto neppure una foto sullaprima pagina della Gazzetta dello Sport. Ame è capitato un paio di volte di finire su un rotocalco, “fotomontato” accanto a una donnache non conoscevo, ma sono state due volte in tutta la carriera. Ora i giornali rosa traboccano di calciatori».
Oggi l’immagine è un diritto, forse anche un dovere: videor ergo sum. L’essenziale è apparire. Caleidoscopi impazziti, parole smozzicate. Tutto il contrario del calciodi Arpino. Arpino apprezzava quel suo capitano da romanzo, alto e schivo, gli piaceva, come Enzo Bearzot e Dino Zoff, perché succedeva di trovargli un libro tra le mani e inbocca una massima conservata nella stiva della memoria casomai capitasse di restare a corto di argomenti. Forse aveva capito che quanto di diverso c’era tra uno scrittore e un calciatore si sarebbe anche potuto mettere in comune.
Nel romanzo Arpino fa dire a Giacinto:«Da quando mi hai insegnato a scegliere, non entro mai in un ritiro senza la provvista». Intendeva provvista di libri. «È vero. I libri sono quanto gli devo, l’eredità che mi ha lasciato. Non leggevo romanzi prima di conoscere Arpino. Ho cominciato dai suoi e sono andato avanti con gli altri, italiani, stranieri. Una scoperta straordinaria, nei ritiri infiniti di quegli anni. Adesso faccio fatica a trovare il tempo. Troppi giornali, da spulciare fino a sera, per esser pronto a rispondere a ogni domanda. Questo sì, mi pesa da presidente: troppe domande», aggiunge sorridendo: «Mi fate parlare sempre, voi giornalisti: dovreste abituarmi un po’ per volta, cheso, una volta a settimana. Mi sentivo più a mio agio in quel calcio là, un po’ più defilato».
Forse anche più educato, un “vaff” di Chinaglia a Valcareggi nel 1974 fece un’eco che rimbomba ancora: «Oggi lo fanno tutti, e la regola non fa notizia». Un Facchetti espulso una sola volta in carriera forse sarebbe meno banale: «Era un’altra realtà, non so come sarei se giocassi ora, troppo comodo sarebbe darsi arie da virtuoso senza essere stato messo alla prova. Ma, è vero, mi piaceva di più allora». Eppure zizzania ce n’era: «I giornalisti erano anche più “cattivi” di oggi, c’era anche chi cercava di passare foglietti con la formazione a Valcareggi, facevano di tutto per dividere: Rivera contro Mazzola, Brera che stravedeva per Gigi Riva e dava dell’abatino a Gianni Rivera».
Mentre Arpino aveva un debole evidente per Facchetti, Mon Capitaine, lo chiamava, a sottolinearne l’eleganza. «Con me, con Dino e con Bearzot aveva un rapporto d’amicizia, forse an che perché ci giudicava positivamente.Vidi Arpino la pri-ma volta in occasione di un servizio Rai. Avevo vent’anni. Morivo di imbarazzo all’idea di incontrare uno scrittore, io che fino ad allora non avevo letto altro che libri di scuola. L’idea che uno sapesse scrivere un libro, un romanzo, mi suscitava un’ammirazione sconfinata».
Altri tempi davvero. Nell’era del calcio patinato, tutto teso a lasciarsi rimirare, nessuno ha tempo di fermarsi ad ammirare qualcosa che vada oltre la propria immagine riflessa, men che meno il dono felice e fragile delle parole che volano e non rendono niente. E infatti Azzurro tenebra– escluso dalle Opere scelte di Arpino da poco ripubblicate – è svanito finanche dai mercati delle pulci. Non fosse che alludevano ad altri troppo più drammatici ricordi, verrebbe voglia di rubare a Facchetti il vezzo della citazione per scomodare i versi di Vittorio Sereni: «Tutto ingoiano le nuove belve, tutto/ Si mangiano cuore e memoria queste belve onnivore./ A balzi nel chiaro di luna s’infilano in un night».
Eppure il tempo a volte restituisce qualcosa: pochi mesi fa sono stati altri scritti di Arpino, tra qualche mese sarà un altro Mondiale in Germania. Sarebbe bello che a qualcuno, in mezzo, venisse infine voglia di ridarci quell’azzurro. Azzurro tenebra.
Ps. Il Mondiale di Germania successivo a questo articolo, uscito su Club3, nell'ottobre 2005, è stato solo azzurro. Giacinto Facchetti se n'è andato meno di un anno dopo questo racconto. Azzurro Tenebra è di nuovo in libreria dal 2007.