La lingua batte dove il dente duole, in questo caso dove pulsa una passione: alla domanda sul motivo per cui, da glottologo qual è – studioso di linguistica storica per i profani, professore all’Università di Genova –, abbia dedicato studi alla lingua del calcio, Moreno Morani risponde, ridendo, con la più ovvia delle ragioni: «Mi piace il calcio. E guardando partite e ascoltando telecronache mi si è innescata una curiosità professionale. La fortuna di chi fa ricerca è anche questa». Chiacchierando da profani con il professor Morani, si scoprono curiosità linguistiche ma anche curiosità calcistiche, perché i percorsi delle parole sottintendono storie, storie di calcio.
Qualche maligno ha chiesto a Sirigu: «Il suo è un cognome sdrucciolo?». Il poveretto ha risposto: «So solo che è un cognome sardo». Era una domanda troppo cattiva o Sirigu ha fatto una papera?
«Mi pare normale che un italiano mediamente colto possa non ricordare, ammesso che qualcuno glielo abbia detto a scuola, che sdrucciolo significa accentato sulla terzultima sillaba. Quello che posso dire è che ho un collega sardo, Contini, che al suo Paese chiamano Cóntini, nel resto d’Italia Contìni e, a Grenoble, dove è andato a insegnare, Continì».
Sìrigu è sardo e gioca a Parigi, la risposta lo salva sulla linea di porta...
«Noi italiani siamo mediamente più bravi degli stranieri a compiere lo sforzo di mettere l'accento giusto ai cognomi: a me basta varcare il confine di un Paese in cui si parli francese per diventare irrimediabilmente Moranì. Noi almeno, anche nelle telecronache, ci sforziamo».
Per studiare la lingua del calcio ha spulciato cent’anni e più di cronache e telecronache, ci aiuta a dirimere il dilemma del momento: la Repubblica di Costa Rica ha una squadra maschio o femmina, i giornali oscillano tra il Costarica e la Costa Rica?
«In genere la squadra assume l’articolo che si dà al Paese. Istintivamente, sottintendendo Stato, mi verrebbe il Costarica, per analogia con Nicaragua con Honduras, ma è vero che l’origine spagnola è inequivocabilmente femminile».
E allora che si fa?
«Chi studia linguistica storica non può dettare regole si limita a osservare i cambiamenti dell’uso: quando gli spagnoli sbarcarono su una terra sconosciuta e piena di fiori la chiamarono Florida (fiorita in spagnolo), poi arrivarono gli inglesi e tutti adesso vanno in vacanza in Flòrida, nessuno direbbe più Florìda».
Smettiamo di fare i cruscanti e parliamo di cose serie. Andando in cerca di parole ha per caso scoperto chi ha ucciso il contropiede per reincarnarlo in una ripartenza?
«Mica facile dare una paternità alle innovazioni linguistiche, spesso manca il documento, la prova regina, posso dire che la nuova moda è invalsa a partire dagli ultimi 20-25 anni. Con la lingua del calcio siamo sfortunati, perché gli strumenti linguistici, i dizionari storici cui normalmente di riferimento come “il Battaglia” la trascurano un po’. Per esempio nei nostri dizionari del contropiede si dice: «Parola di origine ignota, usata nel gergo calcistico. E invece la sua origine è precedente e militare. Del centromediano il Battaglia dice che è degli anni Cinquanta del secolo scorso. E invece nelle cronache esiste almeno dagli anni Venti…».
Questione di orgoglio e pregiudizio?
«Anche, lo sport non era molto considerato dalla cultura, anche se la lingua delle cronache sportive è stata a lungo e ancora in parte è una lingua non "bassa". Giacomo Devoto, capostipite dei linguisti studiosi del calcio, nel 1910 diceva che la lingua del calcio è l'equivalente contemporaneo dell'epica omerica. Il fatto che sia trascurata è anche un problema tecnico: è molto più semplice censire la letteratura di quanto non sia farlo con le cronache. Sarebbe un lavoro immane».
Davvero il gergo del calcio, lingua speciale, parlata da milioni di persone, contamina ogni giorno la lingua comune di chi nulla sa di pallone?
«C'è' un travaso continuo. La lingua del calcio tecnicamente sarebbe una lingua speciale come quella degli informatici, ma due informatici che parlano tra loropossono rendersi incomprensibili a un non specialista anche colto. Invece la signora Peppina, che non guarda partite e non saprebbe riconoscere un calcio d’angolo, può tranquillamente dire - usando l'espressione a proposito - del suo vicino, scampato a un guaio, che si è salvato in corner».
Ci racconta la cosa più curiosa che ha scoperto del pallone studiandone le parole?
«Il catenaccio, cosiddetto gioco all’italiana, l’ha inventato la Svizzera negli anni Trenta del secolo scorso, allenata da un tecnico straniero, se ben ricordo austriaco: chiudendosi in difesa la squadra aveva ottenuto buoni risultati e fatto scuola. Tra le parole italiane il catenaccio è apparso negli anni Cinquanta e all’inizio si chiamava “chiavistello”. Lezione imparata comunque, se è vero che c’è chi chiama “italianisti” i cultori di quel tipo di gioco. Anche se per me “italianisti” sono ancora i colleghi che studiano letteratura italiana. Ma devo dire che il più bel saggio sulla lingua del calcio italiano l'ha scritto un tedesco: Wolfgang Schweickard. Si intitola Die cronaca calcistica».