«Il pallone in Brasile non è uno sport, è una religione. Non c’è un popolo più appassionato di calcio di quello brasiliano». Jean Rocha, 32 anni, viene da Natal, nel Nordest del Brasile, la città dove la Nazionale italiana incontrerà l’Uruguay. Giornalista freelance per una Tv brasiliana e docente di Portoghese e di Storia del Brasile all’Istituto studi di politica internazionale e all’università, osserva con acutezza gli sviluppi del suo Paese.
«Tutti ricordiamo le immagini della disperazione che colse i brasiliani dopo la sconfitta al Mondiale del 1950, in Brasile, contro l’Uruguay. Ma da allora sonopassati settant’anni, la gente è diversa, è più istruita, il popolo brasiliano è più maturo, allora la povertà era molto più diffusa, oggi il tasso di analfabetismo è appena il 5%. Io credo che quella cultura del calcio appartenga al passato». Jean è arrivato a Milano dieci anni fa, per gli studi universitari. La sua famiglia è di origine europea, lui parla otto lingue. «Io sono un cittadino del mondo» dice, «la saudade non mi appartiene».
Ma il Mondiale lui lo segue nel suo Paese.«I brasiliani non sono contro i Mondiali. Ma vogliono essere ascoltati dalGoverno. Certo, in Brasile ci sono tanti aspetti da migliorare. Però l’Esecutivo diDilma Rousseff si sta dando da fare. Il fatto è che l’élite non ama questo Governo come non amava quello di Lula perché, per la prima volta, lo Stato ha messo in campo dei progetti concreti per le classi più povere. E i ceti abbienti non condividono questa politica. Ma se il Brasile oggi è fra le prime potenze del mondo non è per un miracolo: alla base c’è stato un lavoro enorme».
E aggiunge: «I Mondiali sono unagrande opportunità: i turisti vedranno il volto autentico del Paese. Sono stati realizzati strade, autostrade, aeroporti. Quello di Natal, nuovo di zecca, è diventato il quarto del Paese. Il Mondiale passa, ma le opere restano».