Cesare Prandelli è una persona seria. E, come spesso succede, le persone serie si vedono nei momenti difficili. E, infatti Prandelli, ci ha pensato mezz’ora appena prima di decidere di lasciare la panchina azzurra assumendosi per intero la responsabilità dell’insuccesso mondiale: «Il mio progetto tecnico ha fallito».
Tra le righe, neanche tanto, della conferenza stampa più sofferta, ma sempre pacata, della sua carriera si coglie che l’amarezza più che dalle critiche tecniche viene da certe critiche strumentali. È forte il sospetto che, in quelle, più che l’oggetto del contendere: il rinnovo del contratto firmato in anticipo rispetto al risultato del mondiale, abbia pesato l’abitudine di Prandelli a non nascondersi, ad accettare di parlare della vita fuori dalle righe del campo, senza nascondere dietro a un dito le proprie idee, simpatie politiche comprese.
Prandelli ha fatto intendere che se ne va perché ha scommesso su Balotelli e perduto, ma anche perché tutto può accettare meno l’insinuazione di rubare i soldi dei contribuenti. Insinuazione, implicita, ma pur sempre insinuazione - nell’equiparare l’ingaggio del Ct ai vertici del pubblico impiego – che ci fosse qualcosa di esoso o disonesto nel suo stipendio. Curioso il fatto che la critica sia venuta soprattutto da quelli che si peritano da anni di difendere, ben oltre il terzo grado di giudizio, coloro che i soldi dei contribuenti li hanno sottratti davvero. Evidentemente i pesi e le misure non sono per tutti i medesimi.
L’epilogo di Prandelli conferma che nel pallone – al netto del fatto che nessuno ti perdona la sconfitta – attira meno antipatie l’arrampicarsi sugli specchi, il parlare per ore senza dire, il limitarsi a filosofeggiare sulla palla rotonda et similia, il non scocciare con codici etici, che rischiano di naufragare sul primo ragazzotto indolente che passeggia attorno all’area di rigore, nella convinzione di essere già arrivato e che il resto sia dovuto.
Le critiche tecniche, ovviamente, sono tutte ammesse, molte anche fondate. Vale la regola per cui chi vince ha ragione e chi perde torto. Fin qui non ci piove. Ma sarebbe ingrato non ricordare che nel calcio la controprova non esiste: possiamo pensare che sarebbe stato giusto lasciare a casa Chiellini in ossequio al codice etico. O portare Rossi o Gilardino in ossequio al codice tecnico di una squadra più offensiva. Ma se si fosse perso senza il primo o con i secondi saremmo tutti a mettere in croce Prandelli per quelle scelte sbagliate. Non c’è moviola che riavvolga il nastro per dirci se quelli avrebbero più di questi centrato la porta.
Prandelli se ne va avendo sognato, forse peccando di ingenuità o di presunzione, un calcio diverso (anche migliore eticamente e tecnicamente) senza essere riuscito a realizzarlo. È giusto che ammetta di aver sbagliato scelte e cambi – erano il suo compito -. Ma è giusto dargli atto del fatto che il livello medio del calcio italiano è quello che l’Europa ci sbatte in faccia da tempo. E ricordare che quando Prandelli, per rimediarvi, ha chiesto alla Lega Serie A collaborazione per gli stage, i club gli hanno risposto picche.
Gli allenatori – i Ct di più - perdono e vincono per interposta persona: le loro idee corrono su 22 gambe altrui. E quando quelle gambe non hanno controllo e benzina le idee si perdono in rinvii alla viva il parroco. A fronte di questi limiti, che ci sono, è comodo, troppo comodo, per il calcio tutto usare la nazionale come foglia di fico a coprire le magagne del sistema, quando, magari contando su una dose di buona sorte, la nazionale vince, per poi lasciarla, quando perde, con il cerino.