Nel mare di lacrime e sconforto, di bambini attoniti e giovani donne scarmigliate e affrante, quel che accade in queste ore in Brasile ci ricorda che il calcio ha un potere stupefacente (in senso chimico) e il cervello umano sa abdicare a ogni potere. Perché va bene tutto, ma sempre di partite trattasi. Parlare di dramma di un popolo, tragedia nazionale, fallimento epocale sa di un millenarismo che sarebbe bene riservare ad altro, magari un asteroide in arrivo o una pestilenza piuttosto che a un destro di Thomas Mueller, per quanto “devastante”. D’accordo i brasiliani ne hanno beccati 7, non accadeva dal ’38, le hanno prese a casa loro e ciò deve averli strambati non poco anche per questioni di sponsor e investimenti. Ma questo è calcio. Invece altro è diventato. Una tragedia greca. E allora, prego: ricordarsi tutti che in panchina c’era Scolari, non Euripide.
C’è in tutto ciò la sovrumana forza dei simboli, certo. Il pallone come metafora innocua della guerra, sfogo non cruento (ma mica tanto) alla aggressività civilizzata e repressa, catarsi dell’ombra che è noi, e chi più ne ha più ne metta, basta scegliere tra Freud, Aristotele e Foucault per dire qualcosa di intelligente in occasioni del genere. Ma la cosa più brillante da ricordare, a nostro modesto avviso, è che David Luiz ieri aveva la lucidità di un manzo bollito e Fred trattava la palla come un brocco da Interregionale. Tutto qui, alla fin fine.
Posto che, ci mancherebbe, ciascuno è libero di rattristarsi come crede, questo calcio iper-drammatizzato come una telenovela sudamericana o una Gomorra globale, non ci piace proprio. Ci fa sorridere l’enfasi dei commenti, l’investimento economico e mediatico, le distillate verità di qualche ex uomo in mutandoni elevato a profeta di vita in qualche studio tv. Insomma, il simbolo è diventato lettera, la rappresentazione ha preso il posto della realtà, la guerra simulata fa concorrenza a un vero conflitto, magari per dimenticare l’unica cosa seria accaduta in Brasile negli ultimi mesi, ovvero quegli squadroni della morte mandati a ripulire le favelas dai ragazzi di strada a beneficio dei turisti in arrivo.
Val la pena piangere per tutto ciò? Ha senso far diventare un 4-4-2 non più chiacchiera da bar, periferia giocosa dell’esistenza ma asse portante del discorso comune e della psiche collettiva? Se è così, se dobbiamo essere sommersi dallo spleen per uno strafalcione di Julio Caesar o di Cassano, il sonno della ragione ha già generato i suoi mostri. Care ragazze col mascara che cola, cari omaccioni con le insegne del lutto per colpa di Klose, piangete pure. Ma non pretendete che vi si prenda sul serio.