Cesare Prandelli (Reuters).
Ripubblichiamo l'intervista realizzata dal settimanale Credere.
Per che cosa prega un Ct alla vigilia del suo primo Mondiale? Alla domanda non proprio consueta ai margini dei campi di calcio, Cesare Prandelli allarga quel suo sorriso a incisivi lievemente separati, che svela un fondo neanche tanto fondo di timidezza e fa – sempre meno, ma sono gli incerti del mestiere - da argine agli indiscreti. Se le facce portano senso, quel sorriso è la cifra di Cesare Prandelli, anche se il Ct non è uno che scappa davanti alle domande. Se proprio si esagera svicola. Ma stavolta no, ride e risponde: «Prega di poter essere all’altezza. Di non andar fuori di senno, di non perdere la testa, di non prendersi troppo sul serio. Si prega proprio perché la preghiera ti può aiutare a mantenere il senso del tuo limite umano».
Della sua fede non ha mai fatto mistero, ma è come lui: sobria, riservata, discreta. Non lo vedrete mai spargere acqua santa in campo come fa il suo amico Trap: si vogliono un bene dell’anima, Cesare e il Trap, ma sono diversi, più che nella sostanza -che c’è ed è profonda per entrambi - nel modo di esprimerla. È diversa la buccia. Prandelli non sparge acqua santa perché non è nella sua natura, come non lo è fischiare in campo con due dita in bocca.
Se il mestiere non gli puntasse contro un riflettore permanente starebbe volentieri defilato nel suo mondo di sempre: «La fede mi è stata trasmessa da bambino. Sono cresciuto in una famiglia di credenti: poi so bene che quando si arriva all’adolescenza molti ragazzi prendono altre direzioni, per me non è stato così: ho continuato a credere e a praticare, andando a Messa la domenica ma non solo». La richiesta di specificare il non solo lo trova a disagio, sa che nel suo ruolo tutto fa clamore ed è un clamore che lo mette quasi in imbarazzo: «Non mi piace tanto dire le cose faccio, sono cose mie, personali. Parlarne mi darebbe l’idea di mettere in mostra, ma io non devo vendere nulla, non ho niente da insegnare a nessuno. Credo soltanto che le persone debbano fare quello che sentono, magari dedicando un po’ di tempo a chi ha bisogno».
Quando parla ai suoi ragazzi di “esempio” pensa ad altre più semplici cose: ricorda spesso ai giocatori che la maglia azzurra è una responsabilità, che i bambini li guardano e non nasconde di non gradire quando perdono la misura di gesti e parole: «Ci resto male se capita, perché penso sempre di averli preparati anche a gestire certe tensioni e invece a volte devo prendere atto di non averci lavorato abbastanza». Li ha portati ad Auschwitz, sui campi confiscati alla ‘ndrangheta, ad allenarsi con una squadra sequestrata alla camorra. E pure da Papa Francesco in occasione dell’amichevole Italia-Argentina: «Siamo stati davvero felici quando hanno risposto in maniera positiva, non era così semplice anche se siamo la Nazionale di calcio. Che emozione», quasi sussurra, «vedere che da vicino il Santo Padre è esattamente come l’avevo immaginato fin dalle prime parole. Ti colpisce per la semplicità, il suo venire incontro a noi senza aspettare che fossimo noi ad andare da lui. È stato qualcosa di molto molto bello».
Tutti modi, non scontati, di allenare lo sguardo ad allungarsi dove il rimbalzo del pallone da solo non arriva. Anche l’ormai famoso codice etico attiene a quello e fa discutere, ma lì è questione di calcio, di parole fuori misura e falli di reazione. La relazione col Padreterno, invece, è un’altra faccenda, assai più personale. E, quando tutto attorno a una persona pubblica suscita curiosità, il rischio di banalizzare, di buttarla, per usare un’espressione prandelliana, «in caciara» è in agguato.
Prandelli scuote la testa sorridendo disarmato mentre prova a spiegare l’attenzione imprevista nata attorno a quelli che la stampa ha immediatamente classificato come «pellegrinaggi notturni» agli Europei 2012: «Se decido di fare un pellegrinaggio lo faccio con persone che condividono con me la fede. Quelle camminate erano un gioco: vedevamo dall’albergo, sotto la luna, un monastero bellissimo. Ho detto allo staff: “ Se passiamo il turno stanotte andiamo lì, tutti insieme, credenti, non credenti: una squadra nella squadra che cammina assieme. L’abbiamo fatto con questo spirito. Siamo arrivati a destinazione alle 5 di mattino ed era tutto chiuso. È stato il nostro modo per stemperare tensione, per unire di più, per stare assieme alle persone che avevano contribuito a un bel risultato. Poi ciascuno avrà camminato con la propria sensibilità, chi pregando, chi riflettendo, chi raccontando aneddoti sulla propria vita, chi scherzando. Tutto qui. Poi l’etichetta del pellegrinaggio ha suscitato paradossi: mi scrivevano le lettere da mezzo mondo: “Mister, se vince viene a camminare qui da noi?”. Saremo ricordati come una squadra di pellegrini».
Prandelli è figlio della bassa bresciana a cavallo con il confine cremonese, dove gli amici lo chiamano ancora Spuma, soprannome ereditato da un nonno che faceva gazzose: sa che da quelle parti dare a una squadra di “pellegrini” non è precisamente un complimento. E gioca ridendo sull’ambiguità dell’espressione.
Quando si parla di fede vera, però, Prandelli, si fa serio, sa che di mezzo ci sono questioni profonde soprattutto per chi come lui ha vissuto in un contesto forzatamente e innaturalmente pubblico il lutto per la morte della moglie Manuela, domande di Giobbe comprese: «Certo», ammetteva tempo fa, «ti vien da urlare “Perché?”, ma la fede non ha mai vacillato davvero: alla fine credere, come famiglia, ci ha aiutato a vivere anche il dramma con “serenità”, non saprei dirlo con un’altra parola anche se il concetto è delicato: si tratta di accettare che, per quanto dura sia, la vita è anche questo».
Attraversare il dolore, accettarlo, è il primo passo per ricominciare a vivere e forse, con cautela, a sognare. Sapendo che nei sogni, a patto di non dimenticare, tutto è permesso: anche vincere i Mondiali, in casa del Brasile.