C’è uno strano Paese in cui tutto è veniale, in cui si compera una pagina di giornale, il Corriere mica un foglietto di quart’ordine, per manifestare solidarietà all’amico, già senatore della Repubblica, condannato in via definitiva e detenuto per concorso esterno in associazione mafiosa, senza che si elevino troppe voci scandalizzate. Tutti i comportamenti, anche quelli indifendibili sul piano etico, politico o dell’opportunità, meritano un distinguo e un metaforico difensore d’ufficio, senza che l’opinione pubblica emetta un fiato d’indignazione.
La sola colpa che non meriti perdono, a quanto pare, è la “colpa” di Cesare Prandelli. E qui arriviamo al paradosso: non solo non chiediamo le dimissioni neppure ai detentori di funzioni pubbliche condannati e imputati per reati indecenti in quelle funzioni, non solo li lasciamo ad arredare i pubblici uffici fino al punto, l’abbiamo capito dall’inchiesta sull’Expo, che la loro consuetudine al malaffare arriva a “fare curriculum”, ma assistiamo, silenti o plaudenti, al coro che sta appendendo Cesare Prandelli alle dimissioni date come se fossero una forca.
Paragonato a Schettino, nientemeno, accusato di codardia, sospettato di avidità, tacciato d’incapacità. Chiunque si sente in diritto di sparargli. Nessuno che si chieda: ma che ha fatto di male Prandelli? Ha perso i Mondiali, si è assunto le proprie responsabilità ammettendo di aver fallito il progetto tecnico, ha dato le dimissioni (senza trattare buonuscita non avendo atteso di essere licenziato) e ha accettato il contratto offerto da una società straniera: un contratto nella media del mercato del calcio.
È bastato questo - e magari facessero altrettanto i tanti che falliscono i loro obiettivi ben più influenti sulle nostre sorti – per attivare una grandinata di critiche scomposte, non tecniche (quelle ci stanno), ma alla persona. Per lo più piovute dai vertici delle squadre di club: tutti con interessi in gioco, quantomeno preoccupati della rivalutazione sul mercato dei giocatori usciti sconfitti o non convocati dai mondiali.
Diego Della Valle avrà pure amarezze da scontare per il divorzio tra Prandelli e la Fiorentina e per l’esclusione di Rossi dai 23, ma i toni della critica sono apparsi così sopra le righe da dar l’impressione di un regolamento di conti. Andrea Agnelli ha fatto notare che Prandelli potrebbe aver scelto l’estero per la pressione fiscale minore. Sarà anche stata una critica rivolta alla fiscalità europea, come dice, ma, alla luce della storia della Fiat, non pare un pulpito adatto a far la morale. Adriano Galliani si limita a dar lezioni di eleganza, come se si potesse farlo da un club il cui presidente è noto anche per le barzellette, non proprio da educande, narrate in contesti istituzionali internazionali.
Come direbbe il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, ma ci facciano il piacere.