Javier Zanetti alla Pinetina ripete il gesto del 22 maggio 2010 al Santiago Bernabeu di Madrid quando, da capitano dell’Inter, alzò al cielo la Champions appena vinta.
Mai come in questo momento,
quando il desiderio di
pace si scontra con le cronache
di morte che arrivano
dal Medio Oriente in
fiamme e da quella che il Papa stesso ha definito la «terza guerra mondiale spezzettata», vale il motto che
il pugile Micky Ward pronuncia
nel film The Fighter:
«Mai arrendersi in questo sport».
Papa Francesco sottoscriverebbe in pieno.
E ha deciso di rilanciare con un appello un po' speciale per la fratellanza tra i popoli organizzando la Partita interreligiosa per la pace.
L’appuntamento è allo Stadio Olimpico
di Roma il 1° settembre. In campo
campioni di tutti i Paesi e, ovviamente,
di tutte le religioni: da Zidane a Samuel
Eto’o, da Lionel Messi a Baggio, dal giapponese
Yuto Nagatomo a Gigi Buffon fino
a David Trezeguet e Andrea Pirlo.
Se il copyright dell’iniziativa è tutto
di Bergoglio, grande appassionato di calcio
e tifoso del San Lorenzo, la squadra
del quartiere Boedo di Buenos Aires di
cui è anche socio, il compito di metterla
in pratica è stato assegnato a Javier Zanetti, connazionale
del Papa ed ex capitano dell’Inter
vincitutto.
Che cosa le ha detto papa Francesco
quando le ha proposto di organizzare
questa partita?
«Ad aprile dello scorso anno sono
andato in Vaticano per incontrare il
Pontefice in udienza privata con la mia
famiglia. Tra le altre cose, abbiamo parlato
anche di calcio e ci siamo trovati
perfettamente d’accordo su quanto sia
importante l’esempio che noi giocatori
di calcio possiamo dare per promuovere
la pace. Sua Santità mi ha esortato a
essere un esempio positivo. A quel punto
abbiamo pensato insieme a una partita:
questa partita, appunto. Qualche
mese dopo la mia Fondazione P.U.P.I. è
stata contattata e siamo scesi subito in
campo».
Ci racconta come è andato l’incontro
con il Pontefice?
«È stato molto toccante. Bergoglio è
incredibile: ha una semplicità ed
un’empatia immediate, uniche! Il fatto
di parlare la stessa lingua è stata
un’emozione difficile da spiegare».
Si è chiesto perché papa Francesco
ha affidato a lei l’incarico di realizzare
quest’iniziativa?
«Sì, più volte. A parte che siamo tutti
e due argentini (ride, ndr) la risposta
che ho trovato “abbraccia”, diciamo così,
tutta la mia carriera: ho cercato
sempre di essere un esempio positivo,
perché so quanto risalto abbiano nei
confronti dei giovani le azioni di noi
calciatori. Immagino che anche la mia
fede profonda possa aver avuto un significato:
non solo l’essere cattolico,
mavivere secondo dei valori importanti».
Perché lo sport, e il calcio in particolare,
nonostante gli scandali, dagli
episodi di razzismo al fenomeno della
violenza negli stadi fino ai giri vorticosi
di denaro, può ancora trasmettere
valori importanti?
«Perché è uno sport globale, se
guitissimo, emozionante e mediaticamente
molto forte. Purtroppo fanno
notizia soprattutto i fatti negativi, ma
chi ama davvero il calcio ama il gioco, il
tifo e ha rispetto per l’avversario. Il calcio
è prima di tutto, e per fortuna, ancora
un gioco bellissimo».
L’alleanza tra lo sport e le religioni
che contributo concreto può dare alla
causa della pace?
«Ognuno di noi deve essere portatore
di pace nel proprio mondo. Se ognuno
inizia a farlo nel suo ambiente, piccolo
o grande che sia, ecco allora che la
pace non è più solo un desiderio, ma
un’espressione di vita quotidiana. Io
faccio sport, e come me gli altri giocatori:
possiamo iniziare a dare un contributo
concreto nel nostro mondo»
Nella sua vita di sportivo quanto
conta la fede religiosa?
«Molto. Prego tanto. È stato un punto
di riferimento sia nei momenti positivi
sia in quelli di sconforto».
Scenderà in campo con tanti campioni
tutti insieme. Emozionato?
«Tantissimo. Sarà anche divertentissimo,
uno spettacolo unico».
Tra i tifosi sugli spalti si aspetta di
vedere anche il Papa?
«Sarebbe una sorpresa fantastica.
Magari per il calcio d’inizio».
Parliamo della Fondazione P.U.P.I.
Perché porta avanti questo progetto?
«È una parte importante della mia
vita e di quella di mia moglie Paula,
che è attivissima. Siamo stati persone
fortunate, i nostri genitori e la nostra
famiglia ci hanno dato affetto e appoggio.
Per tanti ragazzi è fondamentale
avere un’alternativa di vita rispetto alla
strada e credo che sia nostro dovere
far sì che per tanti di loro possa accadere».
C’è qualche storia di persone che
avete aiutato con la Fondazione che
l’ha particolarmente colpita o fatta
emozionare?
«Tante. Ne racconto una. Appena abbiamo
aperto, c’erano bambini che non
sapevano cosa fosse l’igiene personale.
Un giorno ricordo che un bambino aveva
paura, anzi il terrore, di mettersi sotto
la doccia. Allora sono andato sotto la
doccia con lui, completamente vestito.
È rimasto talmente scioccato e rideva
così tanto che non si è neanche accorto
di essere sotto la doccia anche lui! Oggi,
quel bambino è un volontario che lavora
nella nostra Fondazione. Che cosa ci
può essere di più emozionante?».
Per i bimbi delle villas miserias di
Buenos Aires, dove vivono così tante
persone povere, cosa significa avere
la possibilità di giocare a calcio?
«Tante cose. Un’alternativa di vita.
Un sogno da inseguire correndo dietro
un pallone. Un modo di non rimanere
per la strada, ma in un campo di gioco,
nel quale poter restare bambini e non
diventare troppo presto adulti che si
perdono nella durezza della miseria e
dell’abbandono».
L’INCONTRO CON IL PAPA - L’anno scorso a Santa Marta papa Francesco ha ricevuto in udienza privata Javier Zanetti insieme con la sua famiglia: la moglie Paula, che ha sposato nel 1999, e i tre figli Sol, Nacho e Tommy.
«Non corriamo da soli, ma avanziamo insieme fino alla meta»
La gente vi segue molto, non solo quando siete in
campo ma anche fuori. Questa è una responsabilità
sociale! Prima di essere campioni siete uomini;
persone umane con i vostri pregi e i vostri difetti,
con il vostro cuore e le vostre idee, con le vostre
aspirazioni e i vostri problemi; e allora anche
se siete personaggi, rimanete sempre uomini nello
sport e nella vita, uomini portatori di umanità.
Cos’ha fatto don Bosco con i ragazzi emarginati?
Del Piemonte, di Torino, di tutta quella zona. Li riunì
per giocare al calcio, per insegnare loro due o tre
cose e così i suoi oratori diventarono effettivi.
E si finisce organizzando opere di teatro per ragazzi.
L’importante è non correre da soli, per arrivare
bisogna correre insieme.
La palla viene passata di mano in mano, si avanza
insieme finché non si arriva alla meta; e infine
si festeggia.
Forse questa mia interpretazione non
è molto tecnica, ma è il modo in cui un vescovo
deve arrivarvi e, come vescovo, vi auguro di mettere
in pratica tutto questo anche fuori dal campo
mettendolo in pratica nella vostra vita.