«Nessuna guerra può essere
chiamata giusta. In nessuna
guerra ci può essere
un vincitore. Nessuna
violenza può portare alla
vittoria». All’altro capo
del telefono, la voce di
Robi Damelin trema, a
tratti si interrompe in un lungo respiro.
«Quante persone dovranno ancora
morire?», ripete.
Robi ha 70 anni, è nata
in Sudafrica, dal 1967 vive in Israele, a
Tel Aviv. Nel 2002 suo figlio, David, è
stato ucciso nei Territori palestinesi.
Aveva 28 anni. «Era studente, frequentava
un master», racconta, «faceva parte
del movimento pacifista e non voleva
servire l’esercito nei Territori palestinesi,
ma in quanto riservista non poteva
rifiutarsi. È stato ucciso da un palestinese
».
Perdere un figlio, un dolore atroce,
per una madre. Eppure, il cuore grande
di Robi ha rifiutato l’odio, ha voltato le
spalle alla vendetta e al rancore. Ha
scelto di gestire la sofferenza attraverso
la strada della riconciliazione. «Posso
cercare di capire quel palestinese che
ha ucciso mio figlio: a sua volta lui aveva
perso alcuni familiari, uccisi dall’esercito
israeliano». Da anni, Robi fa parte dell’organizzazione
Parents Circle Families Forum, che
dal 1995 riunisce famiglie israeliane e palestinesi – oggi sono più di 600
– che hanno perso un familiare nel conflitto
fra i due popoli e che hanno deciso
di incontrarsi e collaborare per promuovere
il dialogo e la reciproca comprensione,
nella consapevolezza che
l’odio genera una spirale, un circolo vizioso
dal quale è impossibile uscire.
«C’è una grande differenza fra riconciliazione
e perdono. Cosa significa
perdonare? Dimenticare il passato, le
uccisioni e il male subìto? Io di certo
non cerco la vendetta. Ma non uso la parola
perdono. Riconosco che il dolore
delle madri palestinesi è lo stesso dolore
mio e delle madri israeliane».
Quando la raggiungiamo, la Damelin
si trova in Italia, a Bologna, per un
impegno come testimone di Parents Circle.
«È più difficile essere qui. Continuo
incessantemente a guardare le notizie
dei telegiornali. La mia famiglia è a Tel
Aviv, sono preoccupata e voglio raggiungerla
al più presto».
BAMBINI E DONNE, LE PRIME VITTIME
Robi
ha un figlio di 40 anni e tre nipoti. «La
gente pensa che i bambini dimenticheranno,
ma il trauma invece resterà per
sempre. Che tipo di adulti potranno diventare
questi ragazzini, come ci aspettiamo
che possano crescere?». Uno dei principali programmi di Parents Circle è
rivolto alle scuole. «Ma la mia opinione
è che non possiamo aspettare che i bambini
crescano e cambino la situazione.
Dobbiamo agire sugli adulti, adesso».
Lei lavora moltissimo con le donne
palestinesi, perché, spiega, le donne sono
ignorate nelle grandi decisioni, sono
le prime vittime di questa guerra e
di tutte le guerre, insieme con i bambini.
Unite possono fare la differenza.
«Capisco che se sei una donna palestinese
è terribile decidere se lasciare la casa
per salvare tuo figlio oppure restare
e probabilmente venire uccisi entrambi.
D’altra parte, se sei una donna che vive
in Israele devi decidere dove scappare
per salvarti. Le donne vengono forzate
brutalmente in questo circolo di violenza
ma non vengono mai prese in considerazione
nei tavoli decisionali». E aggiunge:
«Parlare di pace, ora, non ha
senso. Ciò di cui abbiamo bisogno è la
trattativa politica. Nessuna tregua potrà
durare senza un accordo. L’unica via
possibile è il compromesso».
Anche Bassam Aramin, 45enne palestinese
di Gerusalemme Est, ha perso
una figlia a causa dell’odio tra i due popoli.
Era gennaio del 2007, Abir, sua figlia,
aveva appena dieci anni, fu colpita
in pieno da un colpo sparato da un soldato
israeliano, mentre lei si trovava
con sua sorella e alcune compagne davanti
alla scuola, a Gerusalemme Est.
Perché quel colpo sia partito, ancora oggi
non è stato chiarito. «Era un giorno
normalissimo, non era successo nulla
di particolare», racconta Bassam. «Ma
noi palestinesi lo sappiamo bene: per i
soldati israeliani non c’è bisogno di un
motivo per aprire il fuoco».
Per lui sarebbe stato molto più semplice
lasciarsi vincere dalla rabbia e
dall’odio. Eppure, Bassam ha scelto, con
straordinario coraggio, la strada forse
più laboriosa, perché la meno immediata
e impulsiva: ha scelto di abbandonare
ogni desiderio di vendetta. E di lottare
per la riconciliazione.
UNA TESI SULL’OLOCAUSTO
Nel 2005 Bassam
si era già unito al movimento pacifista
contribuendo a fondare l’organizzazione
Combattenti per la pace. Dopo
l’assassinio di Abir, anche lui ha aderito
a Parents Circle: «Quando ti uccidono
un figlio sarebbe naturale cadere nel
sentimento dell’odio. Ma siamo esseri
umani. E io ho capito che con la vendetta
non si va da nessuna parte. Non mi
avrebbe ridato mia figlia».
Bassam oggi lavora al ministero
dello Sport dell’Autorità palestinese a
Ramallah, ha cinque figli ed è già nonno.
Alcuni anni fa ha seguito un master
a Londra in Studi sulla pace e risoluzione
dei conflitti: «Ho svolto una tesi
sull’Olocausto. Perché gli israeliani provano
una paura così profonda e radicata
a livello di sicurezza? Con questa tesi
io ho cercato di capirlo. Vorrei farlo capire
anche agli altri palestinesi».