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«Io non odierò»

10/08/2014  Lei è israeliana e ha perso un figlio militare. Lui, palestinese, piange una figlia uccisa dal conflitto. Fanno parte di "Parents Circle", forum di famiglie che lottano insieme per la riconciliazione.

«Nessuna guerra può essere chiamata giusta. In nessuna guerra ci può essere un vincitore. Nessuna violenza può portare alla vittoria». All’altro capo del telefono, la voce di Robi Damelin trema, a tratti si interrompe in un lungo respiro. «Quante persone dovranno ancora morire?», ripete.
Robi ha 70 anni, è nata in Sudafrica, dal 1967 vive in Israele, a Tel Aviv. Nel 2002 suo figlio, David, è stato ucciso nei Territori palestinesi. Aveva 28 anni. «Era studente, frequentava un master», racconta, «faceva parte del movimento pacifista e non voleva servire l’esercito nei Territori palestinesi, ma in quanto riservista non poteva rifiutarsi. È stato ucciso da un palestinese ». 
Perdere un figlio, un dolore atroce, per una madre. Eppure, il cuore grande di Robi ha rifiutato l’odio, ha voltato le spalle alla vendetta e al rancore. Ha scelto di gestire la sofferenza attraverso la strada della riconciliazione. «Posso cercare di capire quel palestinese che ha ucciso mio figlio: a sua volta lui aveva perso alcuni familiari, uccisi dall’esercito israeliano». Da anni, Robi fa parte dell’organizzazione Parents Circle Families Forum, che dal 1995 riunisce famiglie israeliane e palestinesi – oggi sono più di 600 – che hanno perso un familiare nel conflitto fra i due popoli e che hanno deciso di incontrarsi e collaborare per promuovere il dialogo e la reciproca comprensione, nella consapevolezza che l’odio genera una spirale, un circolo vizioso dal quale è impossibile uscire. «C’è una grande differenza fra riconciliazione e perdono. Cosa significa perdonare? Dimenticare il passato, le uccisioni e il male subìto? Io di certo non cerco la vendetta. Ma non uso la parola perdono. Riconosco che il dolore delle madri palestinesi è lo stesso dolore mio e delle madri israeliane». Quando la raggiungiamo, la Damelin si trova in Italia, a Bologna, per un impegno come testimone di Parents Circle. «È più difficile essere qui. Continuo incessantemente a guardare le notizie dei telegiornali. La mia famiglia è a Tel Aviv, sono preoccupata e voglio raggiungerla al più presto».

BAMBINI E DONNE, LE PRIME VITTIME

Robi ha un figlio di 40 anni e tre nipoti. «La gente pensa che i bambini dimenticheranno, ma il trauma invece resterà per sempre. Che tipo di adulti potranno diventare questi ragazzini, come ci aspettiamo che possano crescere?». Uno dei principali programmi di Parents Circle è rivolto alle scuole. «Ma la mia opinione è che non possiamo aspettare che i bambini crescano e cambino la situazione. Dobbiamo agire sugli adulti, adesso».
Lei lavora moltissimo con le donne palestinesi, perché, spiega, le donne sono ignorate nelle grandi decisioni, sono le prime vittime di questa guerra e di tutte le guerre, insieme con i bambini. Unite possono fare la differenza. «Capisco che se sei una donna palestinese è terribile decidere se lasciare la casa per salvare tuo figlio oppure restare e probabilmente venire uccisi entrambi. D’altra parte, se sei una donna che vive in Israele devi decidere dove scappare per salvarti. Le donne vengono forzate brutalmente in questo circolo di violenza ma non vengono mai prese in considerazione nei tavoli decisionali». E aggiunge: «Parlare di pace, ora, non ha senso. Ciò di cui abbiamo bisogno è la trattativa politica. Nessuna tregua potrà durare senza un accordo. L’unica via possibile è il compromesso».

Anche Bassam Aramin, 45enne palestinese di Gerusalemme Est, ha perso una figlia a causa dell’odio tra i due popoli. Era gennaio del 2007, Abir, sua figlia, aveva appena dieci anni, fu colpita in pieno da un colpo sparato da un soldato israeliano, mentre lei si trovava con sua sorella e alcune compagne davanti alla scuola, a Gerusalemme Est. Perché quel colpo sia partito, ancora oggi non è stato chiarito. «Era un giorno normalissimo, non era successo nulla di particolare», racconta Bassam. «Ma noi palestinesi lo sappiamo bene: per i soldati israeliani non c’è bisogno di un motivo per aprire il fuoco». Per lui sarebbe stato molto più semplice lasciarsi vincere dalla rabbia e dall’odio. Eppure, Bassam ha scelto, con straordinario coraggio, la strada forse più laboriosa, perché la meno immediata e impulsiva: ha scelto di abbandonare ogni desiderio di vendetta. E di lottare per la riconciliazione.

UNA TESI SULL’OLOCAUSTO

Nel 2005 Bassam si era già unito al movimento pacifista contribuendo a fondare l’organizzazione Combattenti per la pace. Dopo l’assassinio di Abir, anche lui ha aderito a Parents Circle: «Quando ti uccidono un figlio sarebbe naturale cadere nel sentimento dell’odio. Ma siamo esseri umani. E io ho capito che con la vendetta non si va da nessuna parte. Non mi avrebbe ridato mia figlia». Bassam oggi lavora al ministero dello Sport dell’Autorità palestinese a Ramallah, ha cinque figli ed è già nonno. Alcuni anni fa ha seguito un master a Londra in Studi sulla pace e risoluzione dei conflitti: «Ho svolto una tesi sull’Olocausto. Perché gli israeliani provano una paura così profonda e radicata a livello di sicurezza? Con questa tesi io ho cercato di capirlo. Vorrei farlo capire anche agli altri palestinesi».

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