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sabato 26 aprile 2025
 
11 settembre
 

Viaggio nel Museo rimasto "prigioniero" della retorica di Bush

11/09/2016  Accanto al ricordo delle quasi tremila vittime degli attentati, il memoriale costruito nel ventre di Ground Zero sembra voler perpetuare la spiritualità patriottica di Bush tesa a esaltare la superiorità morale dell’America e la lotta del bene contro il male. Una lettura che a distanza di quindici anni appare grottesca e fuori dalla realtà.

Una sensazione di vuoto e di dolore per le vittime, il malessere di trovarsi di fronte a un manicheismo quasi brutale nella sua semplificazione esasperata di un evento così complesso come l’attentato al World Trade Center di quindici anni fa e di tutto quello che a livello mondiale è scaturito. È il sentimento, contrastante, che ha caratterizzato la mia visita qualche mese fa al Museo dell’11 Settembre di New York, costruito nel ventre di quello che fu Ground Zero a 21 metri sottoterra.

Il National September 11 Memorial and Museum ha aperto i battenti nella primavera del 2014, raccoglie numerosi reperti in acciaio ritrovati e salvati dalla montagna di macerie e polvere causati dal crollo delle Torri Gemelle durante il quale morirono quasi tremila persone. All’inizio del percorso troneggia la stele di ferro che per mesi restò in piedi dopo l’attacco, diventando l’emblema dei soccorsi e passata alla storia col nome di "World Trade Center Cross". È il museo dedicato alle vittime e alle loro storie, certo, ma è anche il museo che non lascia scampo a riflessioni, pensieri, analisi (e non mi riferisco certo ai soliti complottisti che vanno ripetendo che “gli americani l’attentato se lo sono fatti da soli”) che non siano quelle della retorica di George W. Bush: l’esercito del bene contro l’asse del male riassumibile in questa frase pronunciata a caldo dall’ex presidente: «La nostra è una collera lucida che richiede pazienza, per avere giustizia nella lotta tra i bene e il male».

«Questo», spiegava il presidente Joseph Daniels al momento dell’inaugurazione due anni fa, «è un museo, come amo definire, che non deve dare risposte ma sollevare quesiti, lasciare le persone con domande a cui trovare risposte nella propria testa». Accade esattamente il contrario, purtroppo.

Il presidente Barack Obama insieme a Hillary Clinton, ora in corsa per la presidenza degli Stati Uniti, all'inaugurazione del Museo nella sala con i volti delle vittime
Il presidente Barack Obama insieme a Hillary Clinton, ora in corsa per la presidenza degli Stati Uniti, all'inaugurazione del Museo nella sala con i volti delle vittime

Una lettura politica ossessiva e a senso unico

Accanto alla ricostruzione minuziosa delle vite delle vittime, l’esposizione dei loro cimeli (ci sono i badge impolverati di chi lavorava negli uffici del World Trade Center, le biciclette sbilenche, gli zainetti macchiati di sangue), la rassegna stampa e video che racconta in presa diretta quanto accadde quel giorno, c’è – pressante e fin quasi ossessiva – una lettura politica dell’11 Settembre e di tutto quello che accadde dopo (le guerre in Afghanistan e in Iraq, la caccia a Osama Bin Laden, i progetti nefasti di esportare la democrazia in Medio Oriente) che viene additata al visitatore come l’unica e la sola verità: noi, i buoni, colpiti a tradimento; gli altri, i cattivi, nemici dell’America e della libertà, che vanno annientati senza se e senza ma. C’è, a sigillo di tutto, la foto della riunione nella security room della Casa Bianca con Obama e i suoi collaboratori il 2 maggio 2011, giorno della cattura di Bin Laden. Come a dire: acciuffando Osama il cerchio s’è chiuso, abbiamo vinto noi. E i problemi sono quasi tutti risolti.

Forse questo Museo doveva limitarsi a raccontare il vissuto delle 2.983 vittime morte negli attacchi (davvero strazianti le telefonate d’addio di alcuni passeggeri dagli aerei per congedarsi dai familiari) e lasciare da parte letture politiche fin troppo semplificate che, a distanza di anni, non reggono alla prova dei fatti.

Nella sua miscela di tragicità e retorica, orgoglio e populismo, il Museo, aperto dodici anni dopo quegli eventi, sembra voler perpetuare la più rozza indignazione yankee e la spiritualità patriottica di Bush tesa a esaltare la superiorità morale dell’America. Sembra che il Museo si sia fermato alle parole che l'ex presidente pronunciò in una conferenza stampa un mese dopo l’attentato: «Sono molto confuso di fronte ai malintesi che esistono verso il nostro Paese di fronte al fatto che la gente ci possa odiare… Semplicemente non riesco a credervi, perché io so quanto siamo buoni. Dobbiamo fare un lavoro migliore di presentazione del nostro Paese al mondo. Per esempio, dobbiamo spiegare meglio alle popolazioni del Medio Oriente… che stiamo soltanto lottando contro il male, non contro di loro».

Ecco perché al Museo preferisco il più sobrio Memoriale che sorge sul cratere delle due torri e dove sono incisi i nomi di tutte le vittime con l’acqua, simbolo di vita e di catarsi, che scorre incessante. Come la storia che il museo col pretesto della memoria sembra voler ingabbiare in schemi che quindici anni dopo appaiono grotteschi e fuori dalla realtà.        

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