Re Umberto I (Torino, 14 marzo 1844 - Monza, 29 luglio 1900). In alto e in copertina: la copertina della Domenica del Corriere di Achille Beltrame con l'uccisione di Umberto I a Monza il 29 luglio 1900. Fonte: Wikipedia.
Secondo quanto raccontò il suo aiutante di campo, Ponzio Vaglia, solo uno strano evento turbò la serenità del monarca nelle ore precedenti la sua morte. La sera del 28 luglio 1900, sarebbe andato con il ministro della Real Casa a cena in un ristorante monzese, dove restarono entrambi colpiti dalla singolare somiglianza tra il re e il proprietario del locale, la cui vita presentava un’impressionante serie di coincidenze con quella di Umberto I: erano nati lo stesso giorno, avevano sposato entrambi e nella stessa data una ragazza di nome Margherita, il giorno in cui uno era salito al trono, l’altro aveva aperto quel ristorante... Preso da un’istintiva complicità col suo sosia, Umberto l’aveva invitato alla manifestazione in programma la sera successiva alla palestra Forti e Liberi per la consegna dei premi di un concorso ginnico. Ma nel pomeriggio, del 29 luglio, impallidendo, sua maestà apprese da Ponzio Vaglia che l’oste suo alter-ego era morto, per un colpo d’arma da fuoco.
Non sappiamo quanto questo episodio sia veritiero o invece ingigantito da Ponzio Vaglia o da chi per lui, per via di quel tipico, ricorrente sentimento, un po’ superstizioso, che spinge spesso amici e parenti, a cogliere, a ritroso, nei giorni immediatamente precedenti la fine inaspettata di qualcuno, segnali misteriosi del tragico destino. Stesso discorso va fatto per un aneddoto relativo a Margherita, raccontato dalla marchesa di Villamarina e poi divulgato dalla biografa della regina, Giovanna Vittori. Prima che Umberto si congedasse dalla moglie per andare alla premiazione ginnica, Margherita avrebbe esortato il suo cagnolino bianco a «baciare la mano al padrone». Ma la bestiola, anziché obbedire come al solito, avrebbe puntato le zampe e ringhiato. Così, partito il re, la regina sarebbe rimasta in ansiosa attesa, ricordando il detto popolare sassone che recita: «Bada, bada, se il tuo cane mugola, non lasciare la tua casa».
Il re Umberto I di Savoia e la regina Margherita di Savoia, mentre scendono la scalinata d'ingresso della Villa Reale a Monza, nel 1896. Da Wikipedia.
La storia documentabile tuttavia ci dice che quel 29 luglio 1900, sino al regicidio, per Umberto e Margherita fu un giorno ordinario, come tanti altri che avevano trascorso in oltre un trentennio di soggiorni alla Villa Reale. Umberto si svegliò alle 7,30 in punto, dopo una notte d’afa in cui la temperatura aveva superato i 36°. Alle 9 si era fatto la solita bella cavalcata nel parco, scendendo alle scuderie dalla porticina segreta nascosta da un’anta d’armadio nella stanza guardaroba attigua alla sua camera da letto, la stessa che usava per filare via dalla Litta.
Il re, che ha 56 anni e baffoni immacolati grandi e tesi come un manubrio, aveva galoppato seguito dal generale Avogadro di Quinto, diretto alla dimora di Eugenia, nel solito vialetto appartato, che lui ha fatto anche illuminare per poter raggiungere agevolmente la sua duchessa pure in piena notte. Alle 11 si era congedato dall’amante, promettendole un’altra visita per la sera, quando sarebbe rientrato dalla cerimonia alla palestra. Mezz’ora dopo, lui stesso aveva ricondotto il cavallo nella scuderia ed era risalito alla Villa nel suo studio, per darsi alla lettura della corrispondenza.
In quest’ultima anche un telegramma del figlio che gli annunciava l’imminente rientro dalla crociera intrapresa con sua moglie a bordo dello Jela tra l’Asia Minore e la grecia. Ne parla a Margherita a colazione, fissata come di consueto alle 12,30. Umberto chiede alla moglie se intende accompagnarlo all’evento della Forti e Liberi, ma lei gli risponde che preferisce restare lì, a conversare con le sue dame e pochi altri invitati. Sentendolo tossire ripetutamente, la regina suggerisce al re di rinunciare a sua volta all’impegno, il caldo-umido e l’eccesso di sudorazione avrebbero potuto nuocergli seriamente. Ma umberto la rassicura: ha dato la sua parola e poi il tutto non durerà che una mezz’oretta. oramai sono come fratello e sorella, anzi come due veri, affiatati cugini. Umberto tossisce, perché, di nascosto da Margherita, dopo un decennio di eroica astinenza ha ripreso a fumare, anche se molto di meno che un tempo e non più i Virginia o gli altri sigari che lo facevano tossire, ma sigarette, che spesso rollava lui con le sue mani, usando tabacco montenegrino spedito a volontà dal consuocero Nikita del Montenegro. La moglie troverà nella sua camera l’ultima cicca e la conserverà in un ricco astuccio intarsiato per donarlo poi alla nuora Elena, la quale a sua volta lo diede, in punto di morte, alla vecchia amica e dama di compagnia Hélène Jaccarino, nata Rochefort de la Rochelle.
Il Re Umberto I in carrozza, foto tratta dal sito http://museodelrisorgimento.provincia.lucca.it/accadde/luccisione-umberto-i/
Alle 13,30, mentre la canicola tocca il suo apice i sovrani lasciano la sala da pranzo e si dirigono ognuno nel proprio appartamento. Intanto Gaetano Bresci, da due giorni a pensione in una casa di via Cairoli, vaga perMonza, col suo abito marrone, panciotto, foulard e cappello che tiene in mano. Pranza al Caffè Vapore, nel piazzale della Stazione e, nel pomeriggio, mentre Umberto è di nuovo nel suo studio, passa quattro volte da una latteria e ordina sempre un gelato alla crema, arso dall’afa e dalla delirante attesa di ciò che «deve» compiere. Alle 19,30, Umberto e Margherita si rivedono per la cena, molto rapida, perché lui deve risalire e prepararsi per la cerimonia. un’ora dopo inizia il saggio ginnico alla Forti e Liberi, in via Matteo Campioni. Intornoal campo si è radunato un folto pubblico che irrompe in un applauso patriottico all’ingresso di una squadra venuta dall’irredenta Trento.
Alle 21 Bresci lascia il Caffè Romano in via Carlo Alberto e si dirige allo stadio a piedi, costeggiando i muri della Villa Reale. Venticinque minuti dopo, Umberto, congedatosi dalla moglie, sale sulla sua carrozza, una Daumont a quattro posti, aperta e trainata da due pariglie di cavalli, accompagnato da Avogadro di Quinto e Ponzio Vaglia, verso lo stesso luogo. Confuso nella ressa, Bresci vede entrare la vettura del sovrano, al suono della marcia reale coperto dagli applausi. Umberto prende posto nella tribuna d’onore e non sa che il suo assassino è lì vicino, tre file dopo. Alle 22 termina la gara e Umberto procede alla premiazione, soffermandosi a parlare con i trentini, classificatisi al terzo posto, poi con alcuni ufficiali e con i componenti del Comitato organizzatore, tra i quali ci sono il sindaco di Monza Enea Corbetta e il deputato Oreste Pennati, al quale, nostalgico, il re dice: «Anch’io, sa?, in gioventù ho fatto tanta ginnastica!».
Alle 22,20 circa risale sulla Daumont e si siede in modo da dare il volto al pubblico, andando via. Alla sua destra, accanto a lui, siede Ponzio Vaglia, di fronte Avogadro di Quinto. I cavalli si muovono quattro minuti dopo e, a quel punto, Bresci, sgomitando tra la folla, si avvicina alla carrozza, mette la mano nella tasca dei calzoni e ne estrae una Massachussets a cinque colpi, la pistola che ha acquistato a Paterson per la sua missione. Quando Umberto gli passa a tre metri di distanza lui è già pronto e gli spara più volte, con un certo sangue freddo. Furono tre o quattro i colpi? E partirono tutti dalla rivoltella del Bresci o non anche, per sbaglio, da quella di uno dei carabinieri che vigilavano sulla sicurezza del sovrano? Questi e molti altri interrogativi, riguardo al regicidio, al piano ordito dal suo esecutore e al processo che lo condannò all’ergastolo per direttissima un mese dopo, restano tuttora aperti. È certo, comunque, che la morte violenta di umberto I, nel contesto storico che la precedette, era quasi prevedibile.
Il sovrano, quando scoccano le 22,25, cade riverso in avanti sulle ginocchia del generale Avogadro di Quinto che urla: «Maestà, siete ferito?». «Non credo sia niente», risponde con voce flebile Umberto. Ma non è il niente degli altri due attentati (nel 1878 e nel 1897), questa volta è la morte. La gente, resasi conto dell’accaduto, comincia a urlare e muoversi in modo scomposto, poi a dare addosso all’attentatore. I cavalli s’impennano, il cocchiere li sferza disperatamente e la vettura parte al galoppo verso la Villa Reale, mentre il maresciallo dei carabinieri, giuseppe Salvatori, aiutato da tutto un gruppo anche di civili, arresta il killer, proteggendolo a stento dall’ira della folla atterrita e inferocita. Bresci resta addirittura senza i pantaloni dopo la colluttazione. E il suo volto è irriconoscibile per il sangue e le tumefazioni. A caldo, dice soltanto: «Non ho ucciso Umberto, ho ucciso un Re, ho ucciso un principio!».
Per l’emozione, Corbetta ha un mancamento e cade dal palco: per un attimo si pensa che anche lui sia stato sparato e riesplode il delirio. La Daumont procede verso la Villa Reale, trasportando il sovrano, morente, piegato su un fianco, respirando appena, in un rantolo affannoso.Quando la carrozza varca il cancello della Villa, alle 22,50 del 29 luglio 1900, Umberto I, re d’Italia, si spegne….
Nella camera di Umberto, quando sono da poco passate le 23, sopraggiunge il medico di corte Luigi Erba, che conferma alla vedova il verdetto: il re è defunto. Margherita ha uno scoppio di pianto convulso. L’allontanano, quasi di peso, i due medici. Poi tornano per stilare col collega la relazione sulla causa del decesso. Sul cadavere vengono riscontrate due ferite: una «alla punta del cuore penetrante in cavità; poi un’altra alla fossa sopraclavicolare sinistra. Il proiettile, attraversando la cavità polmonare, si è conficcato al disotto della spina scapolare. La terza ferita, penetrante fra la quinta e la sesta costola, lungo la linea ascellare destra e la spalla, e perforante fegato e stomaco, si avverte al disopra della punta dello sterno». Il corpo fu ripulito e posto di nuovo sul letto, dopo che era stato adagiato su un materasso a terra per il referto medico. Poi furono chiusi per sempre gli occhi al «Re buono».
In quel momento rientrò Margherita, seguita dall’arciprete di Monza, monsignor Rossi, dal cappellano di corte monsignor Pietro Bignami e dal parroco di Santa Maria alla Strada: li ha fatti chiamare per le orazioni funebri e la benedizione della salma, visto che il marito è morto senza il conforto dei sacramenti. Margherita e poi tutti gli altri s’inginocchiano. di nuovo piangendo, la regina baciò e ribaciò Umberto e pronunciò la sua celebre frase: «Questo è il più gran delitto del secolo».
La regina vedova scrisse poi al fratello Tommaso duca di Genova perché avvertisse Vittorio Emanuele (1869-1947) il figlio, che era in viaggio al largo della Grecia con la moglie Elena del Montenegro, ignaro di tutto. Sbarcherà a Reggio Calabria e da lì risalì l’Italia sino a Monza. L’Italia aveva un un nuovo, “Piccolo Re” che resterà sul trono 46 anni per poi abdicare il 9 maggio 1946, in favore del figlio che portava il nome del nonno ucciso e che regnerà per meno di un mese. Il nome Umberto decisamente non portò fortuna a Casa Savoia e dire che era proprio quello del capostipite Biancamano.
(Gran parte del testo è tratto dal libro di Luciano Regolo Margherita di Savoia – I segreti di una regina –edizioni Ares, 2019)
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Margherita di Savoia, una donna che ha lasciato una traccia nella nostra storia: si pensi al termine Margheritismo coniato per definire il movimento culturale-sociale-artistico fiorito attorno alla sua corte o alla prima rivista di moda che si chiamò "Margherita" in suo onore.