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martedì 13 maggio 2025
 
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22 July, quella strage contro la società multietnica che potrebbe ripetersi

06/09/2018  Paul Greengrass ricostruisce la terribile strage sull'isola di Utoya, non lontano da Oslo, in cui persero la vita 69 persone, soffermandosi sul caos dopo l'attentato, la riabilitazione dei sopravvissuti e il processo. Non c'è retorica, ma un messaggio: il rifiuto di una società aperta può portare a questi esiti.

Cronaca di una tragedia. Il 22 luglio 2011 una bomba esplode davanti all’ufficio del primo ministro norvegese a Oslo. La Svezia è in ginocchio, ma la vera strage deve ancora arrivare. A Utoya, un’isola poco lontana dalla città, c’è un campo estivo organizzato dal partito laburista. I figli dell’alta borghesia vi si sono riuniti per discutere del futuro e divertirsi, ignari di cosa li aspetta. Anders Behring Breivik, estremista di ultradestra, si traveste da poliziotto e massacra i ragazzi. Le cifre sono da brivido: 69 morti e 110 feriti, di cui 55 in maniera irreversibile.

Il regista Paul Greengrass porta questo incubo al cinema. Riprende la sofferenza, la disperazione, cercando di non schierarsi su un solo fronte. Non vuole dar vita a uno spettacolone senz’anima, usa le immagini per informare, quasi con distacco, evitando ogni enfasi e ogni effetto strappalacrime. Non è la prima volta che questa vicenda arriva sullo schermo. Lo aveva già fatto Erik Poppe con un film dal titolo simile (U-July 22), presentato all’ultimo Festival di Berlino. Erano 72 minuti interamente in piano sequenza, senza neanche uno stacco, realizzati con la camera a mano: un’immersione nel terrore.

Invece 22 July non si limita a mettere in scena la violenza. Greengrass si sofferma sul caos dopo l’attentato, sulla riabilitazione di chi è sopravvissuto e sul processo, con risvolti da legal movie. Prende forma la strage nella sua completezza, oltre al ritratto di un carnefice in tutto il suo fanatismo. “Se potessi, lo rifarei”, afferma costui, un giovane di nome Breivik. Lui non ha pentimenti di sorta, pensa di avere agito per un fine superiore. Rifiuta il multiculturalismo, l’idea di una società aperta, dove ogni religione e razza può convivere. L’immigrazione diventa per lui un male da combattere con il sangue. Emerge l’intolleranza dei nostri tempi, a volte sembra che Breivik si esprima come la classe dirigente di mezza Europa, con parole impietose per l’estraneo, per il diverso.

La catastrofe (questo è il senso ultimo) potrebbe ripetersi ancora. Il film racconta il coraggio di chi è rimasto in vita e quello di una nazione intera. Bisogna rialzarsi, sfidare l’avversario e cercare di prevenire l’odio razzista. La nostra società genera mostri dagli occhi gelidi, che non si scompongono neanche quando sono messi a confronto con il loro delirio. Breivik rischia di essere la punta dell’iceberg, suggerisce Greengrass, che divide 22 July in due parti: il prima e il dopo, la tempesta e la rinascita. La macchina da presa evita inutili virtuosismi e segue alcuni personaggi chiave: il testimone, il terrorista, il primo ministro e l’avvocato difensore. Insieme formano un puzzle sconvolgente, dove i colori sono spenti e a spiccare sono il grigio del cielo e il bianco della neve.

Grengrass dimentica le dinamiche dei suoi film precedenti (da Jason Bourne a Green Zone), per avvicinarsi al suo United 93, la vicenda dell’aereo che l’11 settembre avrebbe dovuto schiantarsi sul Campidoglio o sulla Casa Bianca. La sua è una ricerca della memoria, un cinema che si accosta alla tragedia con partecipazione e rispetto.

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