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martedì 20 maggio 2025
 
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Resistere, l'autobiografia di Primo Levi

24/04/2016  Poche persone come Primo Levi, memoria storica di Auschwitz, ci ricordano il senso del 25 aprile. Quest'anno la sua voce torna in un libro: "Io che vi parlo". La voce diretta custodita per quasi tre decenni dall'amico Giovanni Tesio. Una storia che Tesio ci ha raccontato, molto prima di poterla pubblicare.

La rielaborazione di un'immagine della liberazione di Bologna. In alto: Primo Levi  (Torino, 31 luglio 1919 – Torino, 11 aprile 1987), scrittore, partigiano, chimico,
La rielaborazione di un'immagine della liberazione di Bologna. In alto: Primo Levi (Torino, 31 luglio 1919 – Torino, 11 aprile 1987), scrittore, partigiano, chimico,

Il senso del “resistere”. Poche cose come un libro uscito in questi giorni danno l’idea di che cosa significhi umanamente, attraverso una vita segnata, la resistenza che ogni 25 aprile, a volte un po’ stancamente, evochiamo. Io che vi parlo è un libro importante: è la voce vera di Primo Levi che ritorna, dopo quasi 30 anni, a ricordarci che dimenticare è il rischio più grande che si possa correre: dimenticare è abbassare la guardia, è smettere di vigilare per impedire che il mostro che ha segnato così profondamente la nostra storia possa tornare:  una storia vicina fisicamente e cronologicamente, quanto lo vediamo nei venti antidemocratici e xenofobi che attraversano l’Europa qui e ora.

“Io che vi parlo” è la voce di Primo Levi raccolta con un registratore da un amico, Giovanni Tesio, italianista, docente universitario all’Università del Piemonte Orientale, 29 anni fa: l’idea, d’accordo con Primo Levi, era di trarne una biografia autorizzata.  Il nastro è rimasto sepolto, a seguito di accordi con la famiglia, il tempo necessario a non violare la riservatezza di altre persone. Adesso è venuto il suo tempo e quel che resta di quei nastri interrotti brutalmente dal suicidio di Levi nel 1987 è diventato il libro di cui parliamo.

Nel ventennale delle morte di Levi, quando quelle parole registrate erano ancora un segreto custodito come un tesoro, Giovanni Tesio ce ne svelò il senso. In questa intervista pubblicata su Club 3 nell'aprile del 2007.

La sua parola incisa. «Non vorrei dire scolpita, ma incisa sì». L’aggettivo scelto da Giovanni Tesio disegna con una linea essenziale il ritratto di Primo Levi a vent’anni dalla morte, quel che resta di lui, della sua testimonianza, della sua letteratura.

Fisicamente, quel che resta, è un quaderno di scuola di un verde indefinito dal tempo, quadretti coperti di una grafia minuta a penna nera, pochi ripensamenti, pochissime le pagine davvero tormentate. Dentro, nuda, la voce di Levi: «In sua presenza avevi la sensazione di stare davanti a una persona la cui maschera era il volto: nel parlare preciso c’era lo specchio dello scrivere pulito». Già chiare in testa le cose da dire, regolare il procedere: «In fondo al manoscritto de La tregua, c’è un calendario con le date dei capitoli. Coincidono con giorni non lavorativi: si direbbe una prima stesura redatta con regolarità nei giorni di vacanza dal lavoro di chimico. Si definiva scrittore della domenica, lo era».

È questa l’unica traccia visibile dell’officina di Levi, un’eredità lasciata, assieme alla sua ultima voce che affidava memorie al registratore del giovane critico amico, per farne una biografia autorizzata: «Non mi meraviglia che avesse accettato, era una persona per nulla smancerosa ma molto disponibile e allora attraversava uno stato depressivo. Lo conoscevo da anni, dalla fine degli anni Settanta, in quel momento l’idea di una biografia autorizzata nasceva dalla speranza di dargli un appiglio, credo che alla base dell’intesa ci fosse il desiderio anche suo di coprire quei vuoti».

Primo Levi è morto l’11 aprile del 1987 volando nella tromba delle scale della sua casa di Torino, di quei tre incontri sono rimasti i nastri: «Registrazioni un po’ disturbate e l’impegno con la moglie a mantenerle inedite. Levi parlava della famiglia, dell’infanzia, della scuola. L’aspetto più interessante sta nel tono dolente, nella voce di persona smarrita. Con un po’ di aggressività in più da parte mia si sarebbe potuti andare più a fondo, ma io non me la sarei sentita. Forse ero sprovveduto, ma mai avrei immaginato che si sarebbe suicidato».

Vien da chiedersi se, dopo una fortuna che nel 2003 ha spinto il Centro studi piemontesi a organizzare un convegno sulla diffusione europea della sua opera, esistano margini di approfondimento: «Sì, nella produzione per così dire fantastica: i racconti di Storie naturali e non solo, che corrono cronologicamente paralleli alla produzione testimoniale e fanno emergere da una parte la componente umoristica, dall’altra l’elemento inquietante che in Levi fa il paio con le poesie di Ad ora incerta. Lì compaiono gli allarmi che battono nella sua coscienza e che la razionalità sopisce negli altri libri».

Si direbbe che il cerchio si chiuda con la formazione scientifica che aggiunge precisione agli aggettivi: «Penso ancor più alla cultura tecnica, al racconto La sfida della molecola, dove un tecnico deve ammettere condizioni in cui qualcosa sfugge al dominio della scienza, uno scacco cui Levi non cedeva». Quello sforzo di resistere all’irrazionale è la chiave per capire tutto Levi, da Se questo è un uomo a I sommersi e i salvati: «Avevo parlato a quel proposito di ottimismo relativo: è come se esistesse in Levi un doppio filo, un nucleo filosofico irrisolto tra l’ordine della ragione e il caos, qualcosa che c’era prima del lager e sarebbe tornato dopo».

Come la sua scrittura, che nessuna memoria, nemmeno la più sconvolgente, avrebbe potuto generare da zero così: «Il lager è un’esperienza traumatica da cui sono uscite altre persone, ma nessun altro ha scritto Se questo è un uomo. Il lager è stato l’elemento clamoroso che lo ha costretto, ma sono convinto che Primo Levi sarebbe arrivato a scrivere anche senza Auschwitz». 

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