Angelo Maramai, direttore generale del Fai.
Il cinque per mille è tornato sotto i riflettori anche quest’anno, dopo che per la seconda volta il Governo ha tagliato i fondi destinati dai contribuenti per quasi 93 milioni di euro. Un arbitrio intollerabile, ma “legale” nella forma, perché ancora non c’è una legge che stabilizza l’istituto del cinque per mille, e ogni anno bisogna ricominciare da capo, a colpi di decreti.
Questo “abuso di potere” ha tuttavia molte altre facce, meno note agli italiani, ma altrettanto oscure: se donare il cinque per mille, infatti, è semplicissimo, riceverlo può diventare invece molto complicato, soprattutto per le organizzazioni più piccole, che devono districarsi in una giungla di norme e uffici burocratici diversi per ogni categoria di enti. Già questa divisione suona strana, visto che il contribuente dona alla singola organizzazione e non al settore di attività (con l’eccezione dei Beni culturali, che vedremo dopo). In più le categorie continuano ad aumentare: siamo arrivati a sei, ognuna seguita da un ministero diverso.
“Nella procedura di iscrizione sono coinvolti otto, dico otto, enti pubblici: cinque ministeri, la Presidenza del Consiglio, il Coni, e naturalmente l’Agenzia delle Entrate. Ognuno ha le sue procedure, le sue scadenze, i suoi contatti, insomma la sua “fettina” di potere, sancita da un lungo elenco di leggi e regolamenti”, dice Carlo Mazzini, consulente e appassionato di non profit. “Questa giungla è figlia della mancanza di una legge stabile, chiara e definitiva, che sottragga l’istituto del cinque per mille all’arbitrio dell’esecutivo: una questione anche di principio”.
Ovvio che con tutti questi interlocutori diventa difficilissimo capire a chi rivolgersi, se qualcosa non va per il verso giusto. Magari un ritardo nei pagamenti, che già arrivano in media dopo tre anni; oppure un dubbio sulla rendicontazione dell’uso dei fondi, uno dei tanti obblighi sostanzialmente inutili, perché basterebbe il bilancio annuale.
Tra tutte le categorie, abbiamo scelto di commentare un solo caso, quasi paradossale: le organizzazioni di tutela del patrimonio culturale e del paesaggio, ultime arrivate nella cerchia dei beneficiari del cinque per mille. Una bellissima idea, vista la ricchezza dell’Italia da questo punto di vista. Peccato che nel 2012, l’anno di esordio, il regolamento del ministero della Cultura sia uscito talmente in ritardo che hanno fatto richiesta solo 15 enti. Quest’anno, sono saliti a 22, di cui 18 ammessi.
Ed ecco il paradosso. Il contribuente non può scegliere l’organizzazione, ma solo il settore di attività “Tutela, promozione e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici”, mettendo solo la firma e non il codice fiscale nel solito riquadro del modello fiscale. “Questa differenza rispetto a tutti gli altri è davvero incomprensibile”, fa notare Angelo Maramai, direttore generale del FAI, il Fondo per l’Ambiente Italiano. “Anche perché toglie al contribuente la possibilità di aiutare la “sua” organizzazione, che gli sta a cuore, che l’ha convinto. Insomma lo Stato si sostituisce al cittadino nella scelta. Senza questa relazione, perdono senso anche le campagne di raccolta fondi”.