«Reinventarsi la vita, dopo la pandemia, recuperando i valori fondamentali dell’uomo con l’insegnamento oggi quantomai attuale del Decameron di Boccaccio», lo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa, 86 anni, premio Nobel per la Letteratura nel 2010 assiste al debutto assoluto in Italia della sua opera teatrale “I racconti della peste” al teatro Stabile di Catania per la regia di Carlo Sciaccaluga. L’autore che dal 1963 con il suo primo romanzo “La città e i cani” ha incantato i suoi lettori ci porta in quei luoghi dell’anima dove l’umanità trae sempre benefici. Dopo aver ricevuto l’Elefantino d’argento, massima riconoscenza della Città di Catania, il premio Nobel racconta a Famiglia Cristiana la peste che ancora oggi siamo chiamati ad affrontare, nelle sfide del presente come quella del fenomeno migratorio «che ci sarà sempre perché i poveri aumenteranno» e con uno sguardo al romanzo su cui sta lavorando dove il valzer peruviano è musica che unendo le diverse classi sociali unifica un paese intero.
Da grande interprete del nostro tempo Mario Vargas Llosa ci mette in guardia dal clima di panico e di terrore che dilaga in Europa nei confronti dello straniero: «perché il povero è una risorsa se lo si aiuta a realizzare il proprio cammino». Tra un piatto di pasta alla norma e la visita ai luoghi simbolo della città come l’antico monastero dei Benedettini descritto da Federico De Roberto ne i Vicerè, Llosa guarda ai grandi narratori siciliani del ‘900, ne trae insegnamento: «questa è anche casa mia».
Come nascono i suoi “Racconti della peste” oggi al debutto teatrale in Italia?
«È una leggenda molto antica basata sul racconto della peste descritto da Boccaccio davanti a un’epidemia terribile nel XIV secolo. Un gruppo di amici si riunisce per raccontarsi come vivono questo tragico evento e cercano insieme di affrontarlo fino a quando la loro relazione in un certo senso di deteriora e ogni racconto connota una differenza di carattere, di impeto. Il modo in cui Boccaccio intreccia questa situazione è magnifico e ho pensato che nel mio racconto quelle testimonianze potessero spiegare bene il presente e dare una risposta nell’immediato alla nostra vita. Nasce così un luogo parallelo, diverso da quello del panico e del terrore creato dalla peste».
Un riferimento preciso al Covid-19 che nel mondo ha causato oltre 6,6 milioni di morti. Quanto la pandemia ha influenzato il nostro vivere e come ci proietta nel futuro?
«La pandemia ha sorpreso tutto il mondo perché si è assistito a qualcosa a cui non eravamo preparati considerando l’elevato numero di morti. A soffrirne maggiormente sono stati i paesi poveri del mondo, come in Perù dove sono morte 220 mila persone. In Africa e in America Latina la pandemia ha avuto effetti devastanti più che altrove perché il sistema sanitario di quei paesi era già al collasso e non c’erano, a differenza dei paesi europei, gli strumenti per fronteggiarla»
Contemporaneamente a I racconti della peste che dopo la tappa di Catania sarà presentato a Genova, sta lavorando a un nuovo romanzo? Può anticiparci qualcosa?
«È un romanzo che ha una continuità con la mia opera, il personaggio principale scrive di musica in riviste e quotidiani, è alla ricerca delle origini della musica criolla peruviana, le cui origini precise non si conoscono bene. È quindi il valzer peruviano, la musica che può aiutare a integrare il paese diviso dove i ricchi non parlano con i poveri e vivono a parte. Il valzer peruviano invece apre le porte della classe media e benestante, diventa un fattore di integrazione, include».
Qual è la musica che ascolta maggiormente?
«Mi piace l’opera lirica, la musica classica, ma anche la musica contemporanea peruviana. Il valzer peruviano che è anche una musica della mia epoca aiuta lo sviluppo della persone, crea unione, accerchia, trasforma la tristezza in gioia, è relazionale».
Al porto di Catania, non lontano da dove ci troviamo noi adesso, qualche settimana fa si è assistito allo “sbarco selettivo” voluto dal nuovo governo italiano in cui i naufraghi rimasti a bordo sono stati definiti “carico residuale”. Nel 2019 in un’intervista rilasciata a El Pais lei aveva duramente criticato i decreti sicurezza dell’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, oggi cosa pensa davanti a questo clima che si è creato?
«Io penso che non ha senso creare barriere a terra o in mare. I paesi del mondo devono invece avere a cuore l’integrazione, guardare al povero che cerca di interagire. Il caso emblema è al confine tra gli Stati Uniti e il Messico dove si cerca di far finta che il problema non esiste, ma invece esiste e ci sarà sempre perché i poveri cercheranno sempre di raggiungere un luogo di salvezza. L’immigrazione è un fenomeno naturale che va affrontato con l’accoglienza e non con un clima di panico e terrore oggi dilagante in Europa. Un’immigrazione che tenga conto anche delle esigenze dei singoli paesi ospitanti, che non sia caotica, ma ordinata, dove le frontiere però sono aperte. L’immigrazione ci sarà sempre e i poveri purtroppo aumenteranno».
Perché ha scelto la Sicilia per presentare la sua opera?
«Un legame forte mi lega a questa terra oltre che un’amicizia profonda con il regista Luca De Fusco, direttore del teatro stabile di Catania. Torno in Sicilia dopo vent’anni e guardo con gioia il mondo siciliano molto simile a quello latino americano perché spontaneo, primitivo, relazionale. Qui mi sento a casa. E poi ci sono i narratori siciliani che hanno da sempre marcato una linea, tracciato un’identità letteraria, penso ad esempio a Luigi Pirandello, fondatore del teatro moderno che in America Latina è molto conosciuto e apprezzato. Ma raccontando la peste penso anche ai Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, il modo in cui lui la descrive è oggi straordinario».