Al tavolo delle riforme Matteo Renzi ha calato l’asso del nuovo Senato, trasformato in Camera delle Autonomie. Palazzo Madama ospiterà un’assemblea di 150 membri, composta da sindaci e presidenti di Regione, oltre a “un gruppo di esponenti della società civile scelti direttamente dal capo dello Stato” (un po’ come i senatori a vita). “Immaginiamo un Senato non elettivo, senza indennità, 150 persone, 108 sindaci dei comuni capoluogo, 21 presidenti di regione e 21 esponenti della società civile che vengono temporaneamente cooptati dal Presidente della Repubblica per un mandato”. Così ha spiegato il neosegretario del Pd in conferenza stampa. Ma il punto è: che cosa faranno i nuovi padri della patria, come venivano chiamati nell’antica Roma i senatori? La risposta è: “non faranno nulla, o quasi”. Nulla, magari no, ma, insomma, nulla di importante.
Il nuovo Senato immaginato dalla riforma renziana, infatti, “non vota il bilancio, non dà la fiducia, ma concorre all’elezione del Presidente della Repubblica e dei rappresentanti europei”. Si occuperanno solo di leggi regionali (creando un doppione con le Regioni?). In pratica, a livello nazionale, i nuovi senatori “lavoreranno” un giorno ogni sette anni infilando una scheda nell’urna. Per il resto, c’è da immaginare, faranno rappresentanza, 150 pennacchi incaricati di riunirsi a intervalli regolari a Roma, magari approfittandone per ammirare le bellezze incomparabili dell’Urbe, visitare i monumenti, magari comparandoli a quelli dei capoluoghi di cui sono sindaci. Un impegno talmente “minimo” che al confronto La Camera dei Lord, con i loro parrucchini e le loro pigre cerimonie aristocratiche, paiono un parlamento di stakanovisti. Se è così, tanto valeva abolirlo, il Senato della Repubblica.