Ormai è diventato un vero e proprio formato mediatico, cinico e tragico al contempo, studiato apposta in tutti i dettagli per essere cinematograficamente terroristico. Invece è un modo – diventato abituale – che documenta le richieste di riscatto da parte dell’Isis, dietro la minaccia di uccidere i rapiti di turno. L’ultimo filmato pubblicati in rete dal gruppo mostra due giapponesi in ginocchio, vestiti come i prigionieri di Guantanamo, accanto a un terrorista completamente vestito di nero che brandisce un coltello e rende così esplicita la minaccia di sgozzamento. Che in troppi casi recenti si è poi trasformata in realtà.
L’impatto emotivo e visivo è forte, non solo per la crudezza della situazione ma anche proprio perché questi terroristi ci hanno abituato a far seguire i fatti alle minacce; finora i loro prigionieri sono stati prima mostrati in questa situazione e poi sottoposti all’orribile esecuzione davanti alla videocamera.
L’occhio vorrebbe scappare ma è irrimediabilmente attratto da immagini come queste, che fanno leva sulla nostra tendenza innata a vedere per credere e a voler capire – quasi: carpire – con gli occhi ciò che la ragione rifiuta e che il cuore respinge: l’efferata crudeltà dell’uomo sull’uomo.
Per questo – al netto del più incallito voyeurismo – li guardiamo. E per questo le testate giornalistiche li rilanciano puntualmente, mostrandoli in televisione, rendendoli disponibili sui propri siti e pubblicandone i fotogrammi a tutta pagina sulla carta stampata.
Chi li produce e li divulga conosce bene questo meccanismo, come pure l’effetto di pressione sulla pubblica opinione e, di conseguenza, sui governi che queste immagini dovrebbero provocare.
Poco importa se il Foreing Office del Regno Unito indaga sulla veridicità del filmato e se esso sia stato realizzato da chi ha prodotto anche quelli delle settimane scorse, in cui comparivano i cooperanti britannici David Haines e Alan Henning e i giornalisti americani James Foley e Steven Sotloff, poi barbaramente decapitati. Il riconoscerne la paternità, semmai, aumenta l’effetto shock.
È giusto mostrarli oppure no? A chi giova la messa in circolazione di questi filmati: alle vittime o ai terroristi? Non si rischia di diventare così i portavoce di questi ultimi, stando al loro gioco perverso?
Le ragioni del diritto-dovere di cronaca sembrerebbero favorire la pubblicazione, non soltanto perché la realtà che si racconta va documentata ma anche perché, dal punto di vista morale, immagini come queste danno la misura della ferocia e della spietatezza dei terroristi. Dall’altra parte, la sensibilità umana e il rispetto per la persona impongono una “pietas” che vuole evitare ulteriori violazioni della dignità delle vittime.
Nel dilemma fra propaganda del terrore e documentazione della cruda realtà, è la nostra coscienza di destinatari a dover orientare nella giusta direzione lo sguardo. E soprattutto il cuore.