«L’uscita del Regno Unito
dall’Unione europea
non è la fine del mondo,
a meno che non siamo
noi a volerlo far finire»,
commenta Romano
Prodi, due volte presidente del Consiglio
e presidente della Commissione
europea (dal 1999 al 2004).
Il Regno Unito, entrato nel Mercato
comune nel 1973 con Danimarca e
Irlanda, non è un pezzo importante
del disegno europeo?
«Il Regno Unito godeva già di
grandissime eccezioni nell’ambito
dell’Unione europea: non partecipava
all’euro, non ha voluto condividere
gran parte della politica sociale, non
faceva parte dell’area di Schengen sulla
libera circolazione delle persone.
L’Inghilterra è un grande Paese pieno
di risorse e di intelligenza, ma è sempre
rimasto sull’uscio dell’Europa».
In che modo si teneva fuori?
«Nel periodo in cui sono stato
presidente della Commissione europea
(ma anche successivamente le
cose non sono cambiate), qualunque
fossero le direttive, i regolamenti, le
decisioni, il Regno Unito chiedeva
sempre eccezioni. Non hanno mai voluto
che l’Unione avesse una politica
estera comune. Ricordo la posizione
nettamente contraria rispetto a quella
dell’Unione ai tempi dell’intervento
anglo-americano in Irak, nel 2001.
Usando un linguaggio familiare, si
potrebbe dire che contrattava su tutto
e non le andava bene mai niente. Però
devo anche dire che i loro funzionari
e dirigenti erano di qualità assolutamente
eccellente, di altissimo rango».
Cosa perdiamo con il divorzio
dell’Inghilterra?
«Da tante parti del mondo si guarda
all’Europa attraverso la Gran Bretagna.
Pensiamo all’India e all’Australia
e, in parte, agli stessi Stati Uniti. Oltre
all’esercito più efficiente d’Europa,
perdiamo un Paese di grandi tradizioni
democratiche. Ora ha deciso di uscire
definitivamente. È un danno, ma
non è certo una tragedia».
Il Regno Unito è spaccato in due,
milioni di inglesi chiedono un nuovo
referendum e Cameron pare rallentare
sul processo di separazione dall’Unione.
L’Inghilterra dà l’impressione
di essersene un po’ pentita...
«L’errore di indire il referendum da
parte di Cameron è stato colossale. Nei
tre anni trascorsi dall’indizione del referendum
a oggi la Gran Bretagna ha
perso influenza e si è logorata. Dobbiamo
anche dire che l’Europa non ha
fatto nulla per costruire una politica
dinamica e capace di risolvere i problemi
della gente. Il referendum è uno
schiaffo all’inerzia europea. Possiamo
dire che una naturale tendenza al separatismo
britannico si è sposata con
l’incapacità europea».
L’Inghilterra ha sempre guardato
alla speciale relazione con gli Usa…
«È vero: si pensano ancora sotto
l’ombrello americano, ma la forza che
ha portato a Brexit è proprio la nostalgia
della grandezza imperiale britannica.
Non a caso hanno votato per l’uscita
soprattutto le persone anziane».
Quali sono stati gli errori dell’Europa? L’allargamento ai Paesi dell’Est?
«L’allargamento all’Est è stata la
grande fortuna dell’Europa. Pensi se
la Polonia oggi fosse nelle condizioni
dell’Ucraina. Aggiungo un dato della
mia esperienza: sono stato presidente
della Commissione europea a 15 e a 25
membri, non vi era alcuna differenza.
L’alternativa alla politica unitaria
dell’Unione è sempre stata quella britannica».
L’Unione rischia di implodere per
contagio. Da dove ripartire?
«Se esaminiamo il voto inglese,
non può sfuggirci il particolare che
le zone ricche e produttive hanno votato
per l’Europa e quelle povere ed
emarginate contro l’Europa. Questo
significa che l’Unione non ha trasmesso
il senso di solidarietà per cui
è stata creata. C’è bisogno di un nucleo
di Paesi che prendano in mano
il futuro dell’Europa e lo propongano
con forza alla riunione degli Stati
membri, a quel Consiglio europeo
che decide la politica comune dell’Unione
e vara i Trattati. Pur senza l’Inghilterra,
la Francia, l’Italia, la Spagna
e la Germania rappresentano la stragrande
maggioranza del Pil europeo.
Un accordo tra questi Stati membri
determinerebbe la politica europea
senza alcun problema. Quanto alla
Germania, deve interpretare fino in
fondo il suo ruolo di leadership, non
solo per sé stessa ma a nome di tutto
il continente. Un vero leader deve
interpretare i problemi di tutti. E la
Germania non sembra volerlo fare».
Brexit danneggia più l’Unione o
l’Inghilterra?
«Fa più male a loro, non c’è dubbio.
Non ci sarà una recessione, ma certamente
l’economia britannica subirà
un rallentamento. Lo ripeto: Brexit
non è la fine del mondo, anche se
può essere di grave danno per la Gran
Bretagna, un Paese spaccato in due
come una mela e attraversato da forti
spinte secessionistiche: oltretutto
Inghilterra e Galles hanno votato per
l’uscita, ma Irlanda del Nord e Scozia
hanno votato per rimanere e ora chiedono
l’indipendenza per agganciarsi
all’Europa. Adesso, comunque, il referendum
democratico è fatto. Sono
dispiaciuto per il risultato, ma è bene
che la Gran Bretagna se ne vada in fretta.
Non può ferire l’Europa con Brexit
e finirla paralizzandone il necessario
progresso».