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venerdì 16 maggio 2025
 
scuola
 

A scuola non si va con i jeans strappati

14/09/2017  Una scuola di Rimini ha vietato di presentarsi con pantaloni corti, jeans bucati, magliette strappate, canottiere, cappellini, sandali e infradito. La preside ha dovuto regolamentare un comportamento che avrebbe dovuto già nascere in famiglia. Con la trasmissione da parte dei genitori di buona educazione e buon senso sull'abbigliamento adatto nelle diverse occasioni.

Sta facendo molto discutere la decisione intrapresa dalla Preside di una scuola secondaria di Rimini. Il nuovo regolamento della sua scuola, in vigore da quest’anno, fornisce per la prima volta agli studenti un dress-code, ovvero indicazioni chiare su cosa si deve indossare quando ci si presenta in classe. O meglio, il nuovo regolamento esplicita in modo chiaro, cosa non si dovrebbe indossare: sono vietati pantaloni corti, jeans con i buchi e magliette strappate, canottiere, cappellini, sandali e infradito. Dopo tre infrazioni al regolamento, seguirà nota  o richiamo scritto. Può la scuola intervenire sullo stile di abbigliamento dei nostri figli?

Un tempo, il problema non esisteva, perché la scuola imponeva quasi sempre una divisa, che oggigiorno è rimasta in vigore solo in alcune scuole private. Per cui, ragazzi e ragazze possono scegliere liberamente il look con cui presentarsi in classe. Di per sé, questo sarebbe auspicabile nella logica di permettere ad ogni studente di presentarsi in mezzo agli altri con l’immagine che più si avvicina alla sua personalità. Non più tutti uguali, bensì ognuno unico e speciale a modo suo: l’autostima di ciascuno dovrebbe guadagnarne, in questo senso.

Ma questa è teoria: perché in pratica i nostri figli hanno trasformato questa libertà di vestirsi come vogliono in un’anarchia pura dove non vige alcuna regola. Il buon senso è morto. Così succede che si vada a scuola con lo stesso look che si indosserebbe per andare in spiaggia: ombelico scoperto, infradito, cappellino in testa.

Basterebbe un po’ di buon senso e anche un po’ di buona educazione, vien da dire. Ma è proprio di questi due ingredienti che si riscontra un’incredibile carenza, oggigiorno. Il buon senso: dovrebbe essere chiaro a tutti che non si può andare a scuola vestiti come se si fosse diretti in piscina o in discoteca. La scuola è la scuola. Qualcuno difetta di questo buon senso? Allora è bene che la scuola lo trasformi in regole e codici da rispettare.

Ah, già: poi c’è anche la buona educazione. Questa spetta ai genitori. Per cui, un figlio minorenne può anche difettare di buon senso e quindi, al mattino, presentarsi a colazione con un look totalmente “inadeguato” per stare tra i banchi. Che ne so: un tacco 12, un cappello da baseball piantato in testa, una ciabatta di tendenza, una maglia o un paio di pantaloni tutti “forati”. Un figlio può anche farla una cosa del genere. A quel punto dovrebbe intervenire un genitore: «Guarda che stai andando a scuola, non a una sfilata!», oppure: «Guarda che la scuola non è una spiaggia». Di solito, i genitori sono sempre serviti a questo: a mettere un limite all’eccesso di trasgressione dei figli e alla loro estemporanea mancanza di buon senso (che in adolescenza potremmo definire in parte fisiologica) e a riportarli sulla strada maestra. Che non è quella del conformismo, bensì quella del buon senso.

Facendo bene questi passaggi educativi, dovrebbe poi succedere che l’adolescente, diventato adulto, ha introiettato regole adeguate per vivere nella società civile. E, per esempio, sa presentarsi ad un colloquio di lavoro con il look adatto, sapendo abbinare in modo consapevole e autonomo l’immagine e il vestito ai diversi contesti in cui vive e si muove.

Purtroppo, questi passaggi educativi oggi mancano. E invece sono fondamentali. Perché aiutare un figlio e una figlia ad avere rispetto per sé e per gli altri, significa anche insegnargli a riflettere su cosa indossa e come va in giro.

La questione è più delicata di quel che sembra: sono sicuro che molte persone utilizzeranno questa notizia per fare commenti che sposteranno la questione sulle regole da imporre, allora, anche a chi arriva a scuola indossando abiti conformi al proprio credo religioso.

«Perché una ragazza che viene a scuola può tenere il volto coperto dal velo e mio figlio non può tenersi in testa il cappello da baseball? Questa è una discriminazione vera e propria».”Quasi certamente la Preside di Rimini dovrà confrontarsi con genitori che andranno a reclamare, dopo aver ricevuto un’ammonizione per la pervicace abitudine del proprio pargolo a presentarsi in classe col cappellino in testa.Quando ciò succederà, sono più che certo che la Preside sorriderà e rifletterà su quanto, in mancanza di buon senso e buona educazione, il suo regolamento sia – in effetti - davvero utile. E molto educativo.

Non solo per i suoi studenti. Ma anche per i loro genitori.

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