Sono passati sedici mesi dall’attentato al Museo del Bardo di Tunisi, in cui un gruppo dell’Isis ha ucciso 24 persone, tra cui quattro italiani. Da allora, nuove stragi terroristiche hanno insanguinato l’Africa, l’Europa, l’Asia. Quel 18 marzo 2015, però, i nostri connazionali morti potevano essere molti di più, se la guida tunisina Hamadi ben Abdesslem non avesse messo in salvo, in una fuga tra le sale del museo, i 45 italiani della sua comitiva. Questione di minuti.
Hamadi ben Abdesslem, la guida del Museo del Bardo che il 18 marzo 2015 mise in salvo 45 italiani.
«Quella mattina», ricorda ora a Famiglia Cristiana, «l’escursione era iniziata con la visita alla Medina di Tunisi e alle 11 varcavamo l’ingresso del Bardo». Una ventina di minuti più tardi la sparatoria: «Pensavo a un’esercitazione militare della vicina caserma, finché uno dei turisti mi ha detto: “Ti sbagli, Hamadi, è proprio un attentato”. La conferma arriva da una pallottola che passa vicino a noi nella sala di Virgilio, mentre illustravo gli stucchi del soffitto».
La sua prontezza fa la differenza tra la vita e la morte: «I terroristi», ricorda, stavano salendo le scale, ho chiesto a tutti di fare silenzio, di abbassarsi e seguirmi». Guida i 45 turisti verso le scale che portano all’amministrazione e da lì escono da un’uscita laterale. Hamadi abita vicino al museo, conosce tutte le strade; attraversano il parco e trovano rifugio nella questura del Bardo: «La gente piangeva, c’era paura, ognuno cercava i propri compagni di viaggio ma purtroppo non tutti ce l’hanno fatta». Chi lo ha seguito si è salvato: due minuti dopo la fuga degli italiani, i terroristi entrano nella sala di Virgilio uccidendo nove persone.
Un particolare del Giardino dei Giusti inaugurato poche settimane fa a Tunisi.
Hamadi oggi ha 65 anni, ha iniziato a fare la guida turistica in Tunisia negli anni Settanta, lavorando per diversi tour operator. Dopo l’attentato, è tornato al Bardo; quando accompagna i (pochi) turisti nelle sale del Museo, rivive l’incubo di quel terribile 18 marzo. Anche quando succedono attentati come gli ultimi di Nizza o in Germania: «I terroristi si proclamano seguaci dell’Islam, ma questa affermazione è una bestemmia: io sono musulmano praticante, sono stato alla Mecca in pellegrinaggio. Salvando gli italiani, ho messo in pratica i miei valori islamici».
Ad Hamadi è rimasto un dispiacere: «Ho provato invano a ricontattare alcuni dei turisti. Dopo aver condiviso quei momenti convulsi, vorrei riparlare con loro con calma». Quel gesto eroico è stato troppo presto dimenticato finché, lo scorso 15 luglio, il suo nome è stato inserito nel Giardino dei Giusti inaugurato all’interno dell’Ambasciata italiana a Tunisi, alla presenza del Presidente della Lega tunisina per i diritti umani e Nobel per la Pace 2015 Abdessatar ben Moussa.
Faraaz Hussein e le sue due amiche, vittime dei terroristi a Dacca il 2 luglio scorso. Faraaz ha perso la vita per aver scelto di non abbandonarle in mano ai terroristi. Lui era stato invitato ad andarsene dagli autori dell'attentato.
Motore dell’iniziativa, ancora una volta, l’associazione Gariwo, che ha trovato l’appoggio del Ministero italiano degli Esteri. Dice il presidente Gabriele Nissim: «Il concetto di Giusto, nato con il memoriale di Yad Vashem di Gerusalemme per ricordare i non ebrei che sono andati in soccorso degli ebrei, ha un valore universale: esistono uomini Giusti che meritano di essere ricordati nei diversi momenti della storia. A Tunisi, per la prima volta in un Paese arabo, vengono onorati quanti si battono per la democrazia e i diritti umani, ripercorrendo la strada già tracciata da quei Giusti arabi che difesero gli ebrei durante il nazismo. Ora più che mai è indispensabile essere uniti con il mondo arabo e musulmano nel contrastare la deriva fondamentalista».
Nel Giardino sono stati piantati cinque ulivi a ricordo di Giusti arabi e musulmani che, a rischio della vita, hanno lottato contro la persecuzione e il terrorismo. Oltre alla guida del Bardo, Mohamed Bouazizi, il giovane ambulante che nel dicembre 2010, dandosi fuoco davanti all’ufficio del governatore della sua cittadina, ha dato avvio alla primavera democratica in Tunisia; Khaled Abdul Wahab, l’imprenditore tunisino che a Mahdia ha salvato gli ebrei perseguitati durante l’occupazione nazista; Khaled al-Asaad, l’archeologo trucidato dall’Isis per aver difeso in Siria il patrimonio culturale di Palmira.
Il cippo dedicato a Faraaz Hussein nel Giardino di Tunisi.
Infine, il quinto Giusto è Faraaz Hussein, il giovane studente bengalese che il 2 luglio è stato ucciso a Dacca per non aver voluto abbandonare le sue amiche. Erano insieme nel ristorante assalito dai terroristi: poco prima del blitz delle forze speciali, gli assassini arrivano al tavolo di Faraaz e gli chiedono di recitare alcuni versetti del Corano. Per lui, musulmano, è semplice farlo. I terroristi gli dicono quindi che può lasciare il locale, ma lui sceglie di non farlo senza le sue due amiche. Gli assassini rifiutano: le ragazze sono vestite all’occidentale, Abinta è musulmana ma americana, Tarishi Jain è indù. Faraaz decide di restare con loro, pagando questa scelta con la vita.
«La sua decisione», ha scritto la madre in una commovente lettera, «trascende tutti i confini di razza, religione o genere. Lui si era sempre sentito responsabile delle persone che lo circondavano, assumendosi il dovere di proteggere coloro che amava. Questi sono i valori che Faraaz si era imposto di rispettare, credendo per prima cosa e sopra ogni altra che una persona debba essere soprattutto un buon essere umano». Un Giusto, appunto.