Abbado nel 2003 a Ferrara.
Nel gennaio del 2001 il quotidiano francese Le Monde lo aveva dato per spacciato. Claudio Abbado aveva diretto a Berlino il Requiem di Verdi in occasione del centenario della morte del compositore. Reduce dall'operazione con la quale, nell'estate del 2000, gli era stato asportato lo stomaco, Abbado era magrissimo, quasi emaciato, dall'aspetto fragile (esiste un Dvd della serata). “Forse è l'ultima volta che abbiamo visto dirigere Abbado”, scrisse lapidario il critico musicale del giornale.
Mancavano solo pochi giorni all'attesissimo ciclo di concerti dedicato a Beethoven, previsto a Roma dall'8 al 15 febbraio.
Abbado, i Berliner Philarmoniker, giganti della tastiera come Pollini, Brendel e la Argerich, tutte le Sinfonie e i Concerti per pianoforte di Beethoven. Un evento. Chiamai Matilde Passa, capo ufficio stampa dell'Accademia di Santa Cecilia. Le chiesi: “Ma avete visto Le Monde? Siete sicuri che Abbado viene a Roma?”. “Sì, tutto confermato”, rispose Matilde.
Abbado venne e fu un trionfo. Esordì la prima sera con la 7a Sinfonia e ci regalò un finale da urlo, condotto a ritmo vertiginoso. Allo spegnersi dell'ultima nota tutto il pubblico balzò in piedi come se scattasse su una molla. Ricordo l'esecuzione della 6a Sinfonia e del 5° Concerto per pianoforte (con Maurizio Pollini alla tastiera). Nel vecchio Auditorium di via della Conciliazione stavo nei posti del coro, cioè di fronte ad Abbado. Per tutta la sera egli non tradì mai un momento di fatica, stanchezza o altro. L'andante molto mosso fu suonato in modo sublime. Ricordo ancora il sorriso che illuminò il viso di Abbado quando, fra un tempo e l'altro, il pubblico romano si scatenava a tossire. In platea molti si indignavano per i colpi di tosse, lui rideva di gusto insieme agli orchestrali, con quell'indimenticabile sorriso da bambino che sdrammatizzava tutto.
In autunno, smentendo alla grande le cupe previsioni di Le Monde, Abbado
e i Berliner volarono a New York. Era un viaggio previsto da tempo, ma
capitò pochi giorni dopo la tragedia dell'11 settembre. Ero a New York e
in quei giorni la città in ginocchio si fermava ogni giorno per i
funerali delle vittime degli attentati, soprattutto poliziotti e
pompieri. Il concerto inaugurale della tournée di Abbado, il 3 ottobre,
fu la prima sera mondana della città dopo la tragedia. New York si
rimise lo smoking per un concerto che fu inaugurato dall'inno americano,
cantato, senza musica, da un poliziotto in divisa. Pochi riuscirono a
trattenere le lacrime. Poi arrivò Abbado e diresse la 3a Sinfonia di
Beethoven, con quella Marcia Funebre che in quei giorni e in quel luogo
sembrò più che mai appropriata.
Un altro ricordo risale all'ottobre del 2003.
A Ferrara, dove Abbado il
giorno dopo avrebbe diretto la Mahler Chamber Orchestra, a cena, mi
trovai al ristorante al tavolo accanto al suo. Una ghiotta occasione per
origliare, visto che si era negato alle interviste, che non amava.
Abbado cenava insieme a un paio di collaboratori. Ricordo che si parlava
di una serie di concerti previsti nel 2004 in alcune capitali per
l'ingresso di nuovi Paesi nell'Unione europea. Ricordo che Abbado si
raccomandò perché ai concerti fossero invitati i giovani, gli studenti e
non solo le autorità. “Altrimenti, non dirigo”, gli sentii esclamare
mentre mangiava lentamente un risotto che aveva chiesto molto ben cotto a
causa dei postumi dell'operazione.
Uno degli ultimi ricordi risale al 21 aprile 2011. Auditorium di Roma,
in programma Ravel e Debussy, al piano Martha Argerich. Serata
particolare, anche a causa della presenza in sala di Giorgio Napolitano. Vedere l'ingresso in sala di Abbado e la Argerich è uno
spettacolo. Lui, elegante e leggero, ha quasi 80 anni. Lei ne ha
compiuti 70. Da giovani hanno studiato insieme a Vienna. Si conoscono da
una vita.
Dopo il Concerto di Ravel il pubblico reclama la Argerich.
Abbado la invita a mettersi alla tastiera per un bis. Lei è indecisa. Si
guardano, ridono. Eseguono musica in pubblico da oltre mezzo secolo, ma
sembrano due ragazzini. La verità è che, facendo musica, Abbado era
arrivato a 80 anni senza mai veramente invecchiare.