«L’Italia ha importato dalla Romania il 40 per cento dei loro criminali» è la frase postata su Facebook da Luigi Di Maio scatenando l’ennesima bufera che vede coinvolto il vicepresidente della Camera. Questa volta, però, il problema non riguarda le gaffe sui congiuntivi, il «venezuelano Pinochet», o la «lobby dei malati di cancro». È invece uno stereotipo d’odio razzista che ha provocato la reazione indignata dell’ambasciatore romeno in Italia George Gabriel Bologan: «Le parole possono indurre fiducia, trasmettere emozioni e speranza, o far crollare sogni. Le parole possono offendere». E, citando John Austin, ha aggiunto: «Pronunciare una frase significa svolgere un’azione che può distruggere o edificare».
Di Maio ha fatto un’operazione che è spesso alla base dei discorsi d’odio sul web: ha orecchiato un dato di terza mano (ha citato il procuratore di Messina Sebastiano Ardita che in un convegno riprendeva a sua volta il ministro dell’Interno romeno del 2009) e, seppur si riferisse a tutt’altro, non ha resistito a condividerlo su Facebook, decontestualizzandolo e cambiandogli di significato. Un conto è dire, come faceva l’esponente di Bucarest, che il 40% delle richieste di cattura internazionale per romeni arriva dall’Italia, ben diverso è affermare (per attaccare l’Ue) che l’Italia «ha importato dalla Romania il 40 per cento dei loro criminali».
Con i numeri si possono fare molti "giochi": per esempio si potrebbe dare la notizia che i detenuti romeni nelle carceri d’Italia sono in costante diminuzione da sette anni (2.966 nel 2009, 2.791 al 31 marzo 2017), mentre dietro le sbarre crescono gli italiani. E allora? Alla luce di questo dato, di quale riflessione sull’import-export potrebbe deliziarci il vicepresidente pentastellato? Forse converrebbe commentare gli oltre 60 mila imprenditori romeni presenti in Italia, in quella che è la prima comunità straniera nel Paese (ma non nelle carceri, dove il primato spetta ad altre nazionalità) con un milione e 131 mila romeni residenti (22,6% di tutti gli stranieri).
Fuori contesto, ma anche senza il senso della misura. È un’altra delle caratteristiche delle bombe mediatiche che possono divenire incitamento all’odio. Negli ultimi giorni il primato spetta al portavoce della Casa Bianca Sean Spicer, che, per attaccare Bashar al-Assad, ha sentenziato: «Nemmeno Hitler ha mai utilizzato armi chimiche». Per menare fendenti al presidente siriano, si è “banalmente” dimenticato di sei milioni di ebrei, molti dei quali sterminati nelle camere a gas dei lager. Ma la frase è a effetto e ha raggiunto lo scopo del volto simbolo dell’amministrazione Trump, che però poi ha avuto almeno la decenza di scusarsi («Ho sbagliato, chiedo scusa», ha detto Spicer).
In fondo, come Di Maio insegna, non conta la veridicità, la verifica delle fonti o la misura. Conta “spararla più grossa”, facendo l’occhiolino per avere più like e condivisioni in Rete. Visioni polarizzate, toni aggressivi, numeri a impatto sono la ricetta per divenire virali e attrattivi. Benvenuti nell’epoca della post-verità, intesa come tendenza a far prevalere appelli emotivi e convinzioni sulla realtà dei fatti, indicata come parola dell’anno 2016 dall’Oxford Dictionary e come chiave con cui i media parlano d’immigrazione nell’ultimo rapporto dell’associazione Carta di Roma.
Chi è mediaticamente esposto, come il politico grillino, dovrebbe prestare particolare attenzione. I crimini d’odio, specie quelli a matrice razzista, sono sempre il frutto di un percorso reso possibile da precedenti meccanismi di derisione, esclusione e discriminazione. Sempre più spesso avviene in Rete: si pensi al ruolo assunto dai social network nella “formazione” dei giovani coinvolti nei Bangla-Tour di Roma, spedizioni punitive promosse tra il 2012 e il 2013 a danni di cittadini bengalesi.
Ha ragione l’ambasciatore romeno a essere preoccupato. L’uscita di Di Maio, nel frattempo divenuta virale e condivisa da molti, rientra appieno nei casi di incitamento all’odio online (hate speech online). La definizione che ne dà il Consiglio d’Europa non lascia spazio a dubbi: «Comprensivo di tutte le forme di espressione miranti a diffondere, fomentare, promuovere o giustificare l’odio razziale, la xenofobia, l’antisemitismo o altre forme di odio fondate sull’intolleranza, tra cui l’intolleranza espressa sotto forma di nazionalismo aggressivo e di etnocentrismo, la discriminazione e l’ostilità nei confronti delle minoranze, dei migranti e delle persone di origine immigrata».