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Credere

Abdon Pamich. Francesco marcia più di me

26/05/2016  Da rifugiato a campione olimpico, l’atleta istriano ripercorre la sua lunga carriera, fino all’incontro con Francesco: «Avanza verso grandi traguardi umani e spirituali»

«Da ragazzino la vita per me è stata davvero dura, in confronto la fatica che ho poi fatto nello sport è nulla». Chi ricorda le Olimpiadi degli anni Sessanta non può aver dimenticato Abdon Pamich, il marciatore che ai Giochi olimpici di Tokyo, nel 1964, regalò all’Italia l’oro − e record olimpico tuttora imbattuto − nella 50 chilometri. Ma la vita di Pamich non è solo legata alle Olimpiadi, ben cinque, in cui ha dato filo da torcere agli avversari.
Nato a Fiume nel 1933, nel 1947 Pamich scappa dal regime di Tito che occupa l’Istria. Ha 13 anni e assieme al fratello giunge in Italia, si rifugia nel campo profughi di Novara e lì trascorre un anno prima di riuscire a ricongiungersi con il padre, che nel frattempo aveva trovato lavoro a Genova. Oggi vive a Roma e, dopo aver marciato e messo a frutto le lauree in psicologia e sociologia anche in ambito sportivo, a 83 anni ha smesso di correre anche da amatore.
Il piglio, l’onestà e l’impegno sono però rimasti quelli di sempre. La vita, affrontata e goduta fino in fondo, gli ha impresso sul viso un’espressione di serenità. «Mio padre era andato a Milano per cercare lavoro, io e mio fratello riuscimmo a scappare salendo clandestinamente su un treno, mentre mia madre e il fratellino più piccolo rimasero a Fiume», racconta il campione facendo un salto indietro nel tempo.

IL RICORDO DEI GENITORI

«Dalla mia mamma ho imparato il senso del sacrificio, il valore dei sentimenti e dell’amicizia. L’educazione che si riceve in casa conta moltissimo, è l’esempio che educa. Anche dal mio papà ho imparato molto. Mi ha trasmesso l’ottimismo: nonostante tutte le traversie che abbiamo attraversato, aveva uno sguardo di speranza sulla vita», ricorda Pamich, a sua volta padre e oggi nonno di due nipoti ormai ventenni. «Poi non dimentico i miei nonni, sono loro ad avermi trasmesso la fede».
Le difficoltà temprano il giovane Pamich che, una volta esordito nello sport, inanella successi. «Pensavo di dedicarmi al pugilato, come faceva mio zio, poi al campo di atletica che frequentavo a Genova mi proposero di marciare perché non lo faceva nessun altro».

IL “RISCHIO SCHWAZER”

  

Si allena senza lasciare il lavoro: «Per partecipare alle Olimpiadi di Tokyo ho dovuto prendere le ferie», ricorda oggi Pamich sorridendo. «Lo sport all’epoca era diverso. Eravamo molto meno condizionati dai guadagni. Oggi un atleta se vince ha poi paura di non riuscire a mantenere lo stesso livello, scontentando gli sponsor, così perde la sicurezza e combina fesserie». A parlare di pressioni ed errori viene subito in mente Alex Schwazer, il marciatore alto- atesino che ha appena finito di scontare la squalifica per doping. «Il suo è giusto un caso, ma si potrebbero fare anche tanti altri nomi. è stata una brutta vicenda, però penso che si debba sempre dare una seconda opportunità a tutti».
Lontano dalla tentazione di giudicare, Pamich è rimasto umile per tutta la vita. «La gara che ricordo come la più bella è stata una 50 chilometri a Praga. Ero stato convocato solo perché un altro Azzurro si era sentito male. Speravo di arrivare nei primi quindici e invece ho battuto il record della gara: una soddisfazione unica».
Sommando i chilometri marciati è come se Pamich avesse percorso tre volte il periplo della Terra. «Ringrazio Dio perché, nonostante tutto, sono riuscito a fare qualche cosa». Quel “qualcosa” si può tradurre nel titolo, conquistato quaranta volte, di campione italiano sui 10, 20 e 50 chilometri, nell’indimenticabile vittoria alle Olimpiadi di Tokyo del 1964 e nel bronzo a Roma nel 1960. «Non ho mai vissuto le gare come una lotta contro gli avversari, quanto come una sfida con me stesso. Ascoltare le mie sensazioni, fare una buona preparazione, migliorarmi ed essere a posto con la coscienza sono state le mie priorità. Non ho mai chiesto al Signore di farmi vincere, non mi sarei permesso».

I “SUOI” PAPI

Anche il numero dei Pontefici che Pamich ha incontrato di persona, ben quattro, è da record. «Paolo VI una volta annunciò la mia vittoria alla Roma-Castel Gandolfo durante l’Angelus», ricorda. «Ho conosciuto anche Pio XII e papa Wojtyla, che ha battezzato mia nipote». Infine, lo scorso febbraio, l’incontro con Francesco. «Mai avrei pensato di poter essere scelto per consegnare la placchetta del pellegrino al Papa: non sapevo se sentirmi onorato o indegno». I due si sono scambiati solo poche parole, ma il momento è rimasto ben impresso nel cuore dell’anziano maratoneta: «Gli ho messo la placchetta al collo, come una medaglia. Francesco è più campione di me: marcia verso grandi traguardi umani e spirituali».

LA PLACCHETTA "TESTIMONIUM"

  

Il testimonium, le cui origini risalgono a mille anni fa, era l’antico “lasciapassare” che comprovava l’avvenuto pellegrinaggio a Roma. La placchetta, che poteva essere in bronzo o stagno, garantiva ai pellegrini l’ospitalità nei conventi. L’originale del testimonium, con quattro anelli agli angoli e l’effigie dei santi Pietro e Paolo, è conservato negli Archivi del medagliere della Biblioteca apostolica vaticana. In occasione del Giubileo sono state prodotte repliche fedeli e ufficiali. Per acquisti e informazioni: www.pilgrimtestimonium.com.

 
 
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