Lo diciamo subito: siamo per l’abolizione dell’ergastolo, o meglio, della “pena di morte lenta”. Lo siamo per un principio elementare di civiltà e per essere fedeli alla Carta costituzionale.
Il dibattito sulla necessità del carcere a vita riemerge, in genere, ogni qual volta un delitto particolarmente efferato scuote l’opinione pubblica. Perciò se ne discute sempre “con la pancia”, sull’onda dell’emozione o del raccapriccio. Quasi mai a mente lucida. Altre volte l’ergastolo è preda del solito luogo comune che vuole che in Italia una pena non si sconti mai fino alla fine. Non è forse vero che il primo argomento usato per dimostrare che la giustizia italiana non funziona è quello che dalla galera si esce in fretta, che “tanto, prima o poi, escono tutti, anche i criminali più incalliti e gli ergastolani”?
E invece non è così. Basta andare a vedersi i numeri per rendersene conto: dai dati ufficiali del Ministero della Giustizia sappiamo, per esempio, che al 31 dicembre 2012 i detenuti ergastolani presenti nelle carceri italiane erano 1.581, quattro volte di più di vent’anni fa. E che un centinaio tra questi ha già superato i trent’anni di detenzione, mentre pochissimi di loro godono del regime di semilibertà. Altro che scomparsa dell’ergastolo, o sua mancata applicazione.
C’è di più: da anni in Italia esiste, nei fatti, un altro “fine pena mai”, un’altra forma, cioè, di carcere a vita. Si chiama “ergastolo ostativo” (art.4 bis O.P.), ed è quella forma d’ergastolo che impedisce al detenuto che abbia commesso gravi reati associativi, o di stampo mafioso, e che abbia deciso di non collaborare con la giustizia, di usufruire di qualsiasi forma di beneficio o sconto di pena: nessun permesso premio, né tantomeno semilibertà o affidamento in prova ai servizi sociali. Questa sospensione “estrema” delle normali regole di trattamento penitenziario fu introdotta nel 1992, in un clima sociale ben diverso dall’attuale, all’indomani della strage di Capaci, quando il giudice Giovanni Falcone fu fatto saltare in aria con la moglie e la scorta. Da allora questa sospensione non è più stata rimossa. Oggi sono circa 700 gli ergastolani ostativi rinchiusi nelle carceri italiane.
Ma è giusto che una pena non debba avere una fine? Non pochi osservano che l’ergastolo è in contraddizione con l’articolo 27 della nostra Costituzione, quando afferma che “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. Come conciliare la rieducazione e il reinserimento nella società con il “fine pena mai”? La giustizia peraltro, in questo modo, non rischia di diventare vendicativa, invece che retributiva? Esigere la certezza della pena, non esclude affatto volere anche la certezza di un fine della pena. Di fatto l’ergastolo non permette di “scontare la pena, pur scontandola nel modo più duro. Se “scontare” significa “estinguere” un debito, in questo caso, il debito resta sempre pendente per intero, come il macigno di Sisifo, che non si ridimensiona al trasporto successivo. E ogni mattino dietro le grate, quindi, è sempre e soltanto un nuovo inizio di pena. Non è un caso che il mondo dell’associazionismo, cattolico e laico, si sia mosso per richiedere la cancellazione dell’ergastolo. E non è un caso se Papa Francesco, nel recente ‘motu proprio’ sulla riforma della giustizia penale vaticana abbia abolito definitivamente il carcere a vita.
Se stiamo nel novero dei Paesi civili è anche perché abbiamo rifiutato la schiavitù e la pena di morte. Ma non del tutto, almeno fino a quando vigerà qualcosa che assomiglia a quest’ultima. Il giorno in cui la pena “di morte lenta” sarà cancellata, com’è già accaduto altrove, finalmente si farà ammenda di un furto sacrilego: quello della speranza. Cioè della risorsa ultima e indisponibile che possiede ogni coscienza umana, fosse anche la più disgraziata e infelice. Quando rimetteremo in moto, davvero per tutti, le lancette dell’orologio che conta la pena da scontare, potremo dirci uno stato di diritto.