Proviamo ad abbandonare la stanchezza e il disincanto. Tentiamo, facendo i conti con la sfiducia, a non fare il conto degli anni, delle generazioni che invano hanno lottato, delle vite che sono mancate. Ignoriamo tutto questo, e facciamo un “esercizio di storia”: mettiamoci di fronte a un ragazzo di 18 anni per spiegargli che un giorno di quarant'anni fa, il 9 maggio 1978, due fatti furono incisi sulla pelle di questo Paese. Due morti. Quella di un politico che si chiamava Aldo Moro, e quella di un giovane coraggioso, che in Sicilia sfotteva i mafiosi del suo paese, Giuseppe Impastato, da Cinisi.
Il filo rosso che li lega - pur nella distanza geografica e di eco mediatica di allora – è che entrambi erano uomini in guerra. Caduti di terrorismo e di mafia. Al nostro ragazzo, a questo punto, occorrerà spiegare cos’era il terrorismo, visto che non c’è più, lo abbiamo sconfitto tutti insieme. E chiarirgli perché, invece, la mafia c’è ancora.
Noi non gli diremmo che lo Stato non ha potuto. Né che la mafia –
come disse un ministro della Repubblica qualche tempo fa – è per il Sud
un costo d’impresa “con cui fare i conti”.Consapevoli della gravità
dell’affermazione, gli diremmo semplicemente
che lo Stato non ha voluto. Non tutto lo Stato, ovviamente. Il 9 maggio,
infatti, ricordiamo quel pezzo di Paese – giudici e giornalisti, forze
dell’ordine e imprenditori, commercianti e uomini della strada – che con
la mafia ha provato a ingaggiare battaglia. E ha perso perché non tutto lo Stato - quello di cui
indossavano la divisa e amministravano giustizia - ha voluto sconfiggere
la mafia. E li ha traditi, come si fa in una guerra civile sotterranea,
taciuta perché inconfessabile.
Leggete l’intervista a Giancarlo
Caselli in questo dossier, il magistrato che a Palermo arrestò Totò
Riina e mise sotto processo Giulio Andreotti. Vedrete - vedrà anche il
nostro diciottenne - che la lista degli strumenti per farcela c’è, è
chiara da tempo. Ma non è condivisa da tutti. C’è un pezzo di questo
Paese che ha reticenza ad affrontare la corruzione, perché la zona
grigia gli fa comodo. Ad attaccare i patrimoni mafiosi perché con
quella gente ha fatto e farà affari. A riformare la legge sul voto di
scambio perché con il voto mafioso ha fatto e farà politica.
Caro
diciottenne, la verità è così semplice che quasi non la vediamo più.
Non abbiamo voluto battere la mafia. Non tutti. Non fino in fondo. E’
così chiaro che non ce lo diciamo neanche più. La verità, a volte, è
come una lama di luce. Abbaglia e ferisce gli occhi. E li costringe ad
abbassarli. E noi ti chiediamo perdono se, accecati, li abbiamo
abbassati anche noi.
Francesco Gaeta
È successo di tutto il 9 maggio. L’assassinio di Aldo Moro, quello di Peppino Impastato, il grido di Giovanni Paolo II contro la mafia, nella Valle dei templi. Quindici anni di distanza tra quel giorno del 1978 che aveva lasciato, a Cinisi, un giovane dilaniato dalla dinamite e, a Roma, la nazione orfana di un suo padre costituente e l'urlo del Pontefice. “Una volta, un giorno verrà il giudizio di Dio”, aveva tuonato contro i boss papa Woytyla, invitandoli a convertirsi. E ai giovani aveva detto “Alzatevi e prendete in mano il vostro e il nostro avvenire”.
Un coraggio che aveva avuto Peppino Impastato, rompendo con il padre mafioso, aiutando i contadini nelle lotte contro gli espropri delle terre, denunciando, dalle onde della sua radio, i soprusi e le illegalità. Anche quelle dei boss più potenti, di quel Tano Badalamenti che abitava a cento passi da lui. Un coraggio che hanno avuto molte delle vittime del terrorismo e delle stragi: forze dell’ordine, gente comune, magistrati, politici, professori universitari, sindacalisti che compivano ogni giorno il proprio dovere. A loro il Parlamento ha dedicato, il 9 maggio, una “Giornata della memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice”. Un modo per ridare alle vittime parola e visibilità. E per allargare i confini dei ricordi personali trasformandoli in memoria collettiva. Sapendo che l’insieme delle tanti voci, comprese quelle dei colpevoli, può restituirci il quadro di ciò che è stato nella nostra Repubblica e può aiutarci a costruire senza ricadere negli stessi errori. Il lavoro che alcuni tra i parenti delle vittime stanno facendo, per ricostruire pezzi della nostra storia, per mettere in rete gli archivi, per educare le giovani generazioni è fondamentale per un Paese che vuole guardare in avanti. È anche un peso che non può essere lasciato solo sulle loro spalle.
Anno dopo anno, la Giornata ha aiutato, ricordando persone e fatti concreti, a porre l’attenzione sul lavoro della magistratura e sui depistaggi dei servizi deviati, sul ruolo dell’informazione e sull’importanza della riconciliazione, sul senso delle istituzioni.
Riparte da questi anniversari la ricerca di una strada per fare i conti con ciò che, nelle istituzioni, nella società civile, nella cultura, nella politica ha funzionato e con ciò che invece ancora ostacola il nostro progresso civile. Ci sono ancore acque torbide, spiega il procuratore Gian Carlo Caselli. È ora di dare tutti una mano perché torni chiara e pulita a vantaggio di tutti.
Annachiara Valle
Il procuratore capo di Torino Gian Carlo Caselli con don Luigi Ciotti (foto Ansa)
Ancora troppi intrecci torbidi tra mafia e istituzioni. È questa la ragione principale per cui lo Stato è riuscita a sconfiggere il terrorismo e non la criminalità organizzata. Ne è convinto il procuratore capo di Torino Gian Carlo Caselli. Anche se invita a non abbassare la guardia sui rigurgiti di violenza politica che riemergono di tanto in tanto. “Il ricorso diffuso e sistematico alla violenza”, spiega Caselli, “ha già fatto pagare al nostro Paese prezzi enormi. Non si può dimenticare che, prima di sfociare in forme organizzate (anni Settanta e Ottanta) la violenza politica ha avuto una lunga incubazione nella stagione dei "compagni che sbagliano". Incubazione caratterizzata e favorita anche dall’indifferenza, sottovalutazione, giustificazionismo indulgente, talora contiguità da una parte consistente del mondo politico ed intellettuale. Tutto questo si sta in parte ripetendo e non dovrebbe assolutamente ripetersi. Sui muri della sua Trappeto il coraggioso e non violento Danilo Dolci tracciò la scritta: "Chi tace è complice". Guai se questa scritta anche oggi dovesse restare una bella frase senza concrete conseguenze. Non bisogna abbassare la guardia.
Perché la mafia è ancora da sconfiggere? Cosa non ha funzionato?
Per comprendere la situazione attuale non si può non riportarsi alle stragi di Capaci e di via D’Amelio. Il nostro Paese era in ginocchio, aspettava il colpo alla nuca, invece, con il contributo di tutti, non siamo precipitati chissà dove, ma ci siamo salvati. Abbiamo salvato la nostra democrazia che, pur con tutti i suoi difetti, è sempre meglio di uno Stato-mafia o di un narco-Stato che i Corleonesi volevano instaurare. Parte da Palermo una vera resistenza che ottiene risultati imponenti. Sembrava fatta, invece lo Stato, per effetto delle cosiddette relazioni esterne, viene fermato mentre sta per battere un calcio di rigore e viene fatto rientrare negli spogliatoi. Sul banco degli imputati invece che i mafiosi ci finiscono i magistrati, leggi fondamentali come quelle sui pentiti subiscono modifiche peggiorative.
Caselli con il sostituto procuratore Guido Lo Forte al termine della prima udienza del processo a Marcello Dell' Utri, il 5 novembre 1997.
Nel suo libro “Le due guerre” (Melampo editore) lei spiega che c’è stato un approccio diverso a mafia e terrorismo. Perché?
Il terrorismo storico fu sconfitto quando fu politicamente isolato e conseguentemente entrò in crisi, donde la slavina di pentiti che non ci credevano più. La mafia invece non è isolata, è caratterizzata da intrecci torbidi con pezzi della politica, dell’economia, delle stesse istituzioni. E poi l’impresa criminale sta sempre più trasformandosi in impresa economica. Sempre di più i mafiosi hanno bisogno, e si avvalgono, di ragionieri, commercialisti, notai, avvocati, magistrati, amministratori locali. Sfuma progressivamente sempre di più la linea di demarcazione tra lecito e illecito per quanto riguarda l’economia. Occorrerebbe una magistratura forte. Invece sappiamo che di rafforzamento della magistratura c’è qualcuno che non vuole assolutamente parlare o se ne sente parlare è come il fumo negli occhi.
C’è una zona grigia che si sta allargando?
Finché continueranno le relazioni esterne, l’intreccio torbido, vergognoso con le istituzioni la sconfitta della mafia sarà impossibile. Bisogna sciogliere questo nodo, invece ancora oggi ci sono signori che con la mafia intrattengono rapporti e fanno affari. Poi quando riesci ad ottenere affermazioni di responsabilità di qualcuno, e parlo di Andreotti e di Dell’Utri, non succede nulla come se i magistrati avessero scoperto l’acqua fresca, invece forse hanno scoperto un’acqua torbida sulla quale bisognerebbe riflettere anzicché che far finta di niente.
Dopo la morte del figlio, Felicia Impastato si è dovuta battere soprattutto perché non fosse cancellata o infangata la memoria di suo figlio che denunciava il boss Badalamenti. Lei si è occupato direttamente del caso. Cosa è emerso?
Il processo per l’omicidio di Peppino Impastato fu aperto più volte senza risultati. Durante la mia direzione della procura di Palermo ('93-'97) riaprimmo il caso. Io stesso andai due volte in Usa per interrogare Badalamenti e mi colpì soprattutto come a fronte di una faccia e di un profilo assolutamente impenetrabili, da mafioso classico, fosse rimasto scosso quando, facendo il mio mestiere, gli chiesi se era vero che dalla sua radio Peppino Impastato osava rivolgersi a don Tano Badalamenti dileggiandolo come "Tano seduto". Pazienti, minuziosi riscontri delle dichiarazioni dei pentiti portano alla condanna all’ergastolo. Nel frattempo la commissione parlamentare d’inchiesta elabora un documento davvero prezioso relativo agli incredibili depistaggi che dopo l’omicidio furono purtroppo registrati. Basti dire che si cercò di far passare Peppino impastato come un terrorista che era morto mentre cercava di fare un attentato alla linea ferroviaria.
Gian Carlo Caselli con i ragazzi di Libera. Molti di loro sono impegnati nel riutilizzo dei beni confiscati alla mafia.
Cosa dovrebbe fare il nuovo Governo per rafforzare la lotta alla mafia?
Ci vuole un forte potenziamento del contrasto soprattutto per quanto concerne l’economia mafiosa che oggi è il centro, il cuore, del potere mafioso. Per fare un piccolo elenco: bisognerebbe approvare la norma sull’antiriciclaggio che oggi non è previsto, modificare l’articolo 416 ter del codice penale relativo al voto di scambio (oggi fa ridere perché bisogna che ci sia il versamento di soldi, mentre lo scambio elettorale avviene con promesse, servizi), approvare una nuova legge contro la corruzione, reinserire il falso in bilancio – spesso attività prodromica all’attività mafiosa – che sostanzialmente in Italia non è più punito. E poi occorrerebbe rendere il processo più snello così si avrebbero le ricadute positive su tutte le forme di contrasto all’illegalità, mafia compresa. È ora di fare alcune cose, come per esempio, l’abolizione del grado di appello, come in tutti i Paesi occidentali di rito accusatorio. Dovrebbe restare solo un primo grado e la Cassazione. Se facessimo così anche da noi recupereremmo un mare di uomini e risorse da concentrare nel primo grado in modo da snellire i processi in questa fase e poi, non essendoci più l’appello, snellire l’iter complessivo della procedura.
Bisogna insistere sulla strada del sequestro e del riutilizzo dei beni? Come?
Abbiamo cominciato a Palermo, durante la mia direzione di quella procura e siamo riusciti, in quegli anni, a sequestrare ai mafiosi beni per un valore complessivo di diecimila miliardi di vecchie lire, una piccola finanziaria. Poi in Sicilia, ma anche in Calabria, in Campania, in Puglia e oggi anche nel Centro e nel Nord del nostro Paese, lungo questa strada si sono fatti dei passi significativi. Oggi il patrimonio sequestrato ai mafiosi è di una imponenza incredibile. Ed è vero che i mafiosi, più che il carcere, temono che qualcuno li tocchi nel portafoglio. Quanto al realizzo sociale, è importante, perché è la dimostrazione che la legalità paga. Più legalità significa meno mafia. I beni sequestrati significano lavoro che prima non c’era, iniziative imprenditoriali che prima non c’erano, c’è un riscatto di dignità, la riappropriazione del futuro da parte di questi giovani che diventano cittadini e non sono più sudditi della mafia. La procedura è ancora un po’ barocca. Uno dei punti più critici è quello delle ipoteche delle banche sui beni confiscati. Queste ipoteche, finché ci sono, vanificano l’attività meritoria di realizzo sociale. È troppo chiedere che anche le banche si impegnino sulle strade dell’antimafia?
Annachiara Valle
Giovanni Paolo II nella Valle dei templi il 9 maggio 1993 (foto Olycom)
di Luigi Ciotti, fondatore di Libera
Era il 9 maggio del 1993. Giovanni Paolo II , in visita in Sicilia, incontra i genitori di Rosario Livatino , giovane giudice assassinato da Cosa nostra. Poco dopo, dalla Valle dei Templi di Agrigento, sovvertendo il protocollo, chiamerà la mafia «una civiltà di morte» ed esorterà i mafiosi a convertirsi.
La reazione non si fa attendere. Il 27 luglio, la dinamite danneggia a Roma le chiese di San Giovanni in Laterano e di San Giorgio al Velabro. Il 15 settembre viene assassinato don Pino Puglisi e pochi mesi dopo don Peppe Diana.
Quella stessa estate, i magistrati avevano raccolto le confessioni di un mafioso di primo livello, Francesco Marino Mannoia: «Nel passato la Chiesa era considerata sacra e intoccabile . Ora invece Cosa nostra sta attaccando la Chiesa perché si sta esprimendo contro la mafia. Gli uomini d’onore mandano messaggi chiari ai sacerdoti: non interferite» .
Il giudice Rosario Livatino ucciso dalla mafia il 21 settembre 1990 (foto ansa)
Ricordare il discorso del Papa del '93, significa allora essere capaci – come sacerdoti, come cristiani e come cittadini – d’interferire. Interferire denunciando le violenze e i soprusi. Interferire mostrando nelle scelte e nell’impegno che il Vangelo è incompatibile non solo con le mafie, ma con la corruzione, l’indifferenza, le disuguaglianze e le distruzioni di bene comune su cui le mafie edificano i loro imperi.
Se il discorso del Papa fu uno spartiacque, è perché d’allora non è stato più possibile giustificare silenzi, complicità, omissioni. La fede non può essere un salvacondotto. Non ci esonera dalle responsabilità sociali e civili, dal contribuire a costruire già in questa vita speranza e giustizia. Livatino che – amo credere – ispirò quel giorno l’accorata denuncia del Papa, aveva scritto su un quaderno: «Non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma se siamo stati credibili».
Luigi Ciotti
Accanto a Giorgio Napolitano le vedove Calabresi e Pinelli, il 9 maggio 2009 (foto Ansa)
di Manlio Milani
C'è una forma di “riparazione istituzionale" nella nascita della Giornata della memoria dedicata alle Vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice ? Essa nasce sotto la spinta delle Associazioni dei familiari che già nel 2001 nell'ambito dell'Osservatorio Nazionale delle vittime di reato – con Piero Fassino ministro della Giustizia – trova la sua prima enunciazione. Successivamente, a causa della chiusura dell'Osservatorio voluta dal successore Roberto Castelli, la proposta verrà portata, dalle Associazioni, all'attenzione dei gruppi parlamentari. Troverà infine concretizzazione nel 2007. Giorgio Napolitano ben la sorregge perché coglie il valore di etica pubblica in essa presente, la funzione di stimolo al Paese perché sappia riflettere su quel periodo senza aprioristicamente schierarsi da questa o quella parte. Il presidente della Repubblica denuncia apertamente la collusione, nelle stragi, tra estremismo di destra e uomini delle istituzioni : una importante assunzione di riconoscimento della responsabilità pubblica. Dichiarazioni accompagnate da altrettanti significativi gesti simbolici: la pubblicazione di un libro con i nomi, le biografie di tutte le vittime; l'incontro delle vedove Calabresi e Pinelli; la volontà di dare “volto e parola” ai familiari delle vittime attraverso i loro interventi e nel sostenere la realizzazione, a Brescia, del percorso della memoria in cui sono riprodotti tutti i nomi delle vittime .
Manlio Milani durante la lettura della sentenza del processo d'appello per la strage di piazza Loggia, a Brescia (foto Ansa)
Gesti che hanno fatto capire al Paese che nessun ceto sociale, nessuna professione è stata esclusa da quella violenza: perché è il Paese nel suo insieme che è stato colpito. Quindi, le vittime, i loro nomi offrono a Napolitano l'opportunità non per proporre soltanto il dolore che ha colpito chi è rimasto, ma anche la dignità di come sono stati vissuti quei lutti, dell'impegno profuso da soli o tramite le Associazioni, nel testimoniare la volontà di affermare la verità e una memoria pubblica, su quei fatti, che sappia incidere anche nel modo di essere della democrazia del nostro . Ecco perché il 9 Maggio 2012 Napolitano inaugura il Portale della rete degli Archivi, come espressione della volontà che nulla deve essere nascosto .
Gesti, percorsi, sostegni morali e politici, volontà di riconoscere, con le onorificenze del 2013, l'impegno delle Associazioni. Le memorie delle vittime, per Napolitano, sono tratti che servono per riproporre mezzo secolo di storia del Paese con la consapevolezza che essa è ancora “parte viva” del nostro presente ...
Un impulso che non è raccolto, salve alcune eccezioni, dai media che, invece, ne fanno una lettura “familistica” o “vittimaria”, spesso di rancorosità riproponendo una logica di contrapposizione (si pensi alla lettura fatta dal Giornale sull'incontro Calabresi/Pinelli: “non è accettabile metterli sullo stesso piano”) o di pura e semplice rimozione fatta anche di mancanza di volontà nel “voler” capire. La conseguenza è anche una rinuncia a svolgere una funzione “educativa” e di conoscibilità di quelle verità consolidate e che, in particolare per le stragi, sono troppo spesso ignorate.
Giorgio Napolitano durante la cerimonia del 9 maggio 2011 particolarmente dedicata ai dieci magistrati uccisi dal terrorismo (foto Ansa)
L'individuazione della data non è stata facile. Le Associazioni proposero il 12 Dicembre, Strage di Piazza Fontana , l'inizio di quella Strategia della tensione che produrrà lutti, dolore, tensioni nella società. Una violenza che caratterizzerà gli anni '60, '70 e '80 . Con quella proposta le Associazioni dei familiari volevano sottolineare il ruolo dei cittadini nella partecipazione , nella assunzione di assumersi direttamente la difesa delle istituzioni dall'attacco terroristico. Si pensi in particolare ai funerali di Piazza Fontana e a quelli di Piazza Loggia: una forza popolare che contrastò la violenza e il ricatto alle istituzioni “con la forza della democrazia” e che seppe far emergere le responsabilità di uomini delle istituzioni nell'aver certamente, quanto meno, coperto quella violenza . Un dato che lo stesso Napolitano ha fatto proprio, soprattutto negli interventi del 2009 e del 2010.
Il Parlamento optò per la data del 9 Maggio, uccisione di Aldo Moro, per sottolineare simbolicamente che la violenza stragista e quella terroristica avevano come obbiettivo comune di abbattere le istituzioni democratiche : tanto più con l'uccisione di Moro che incarnava l'incontro delle due più forti forze popolari dell'antifascismo, Dc e Pci, allo scopo di dare ulteriore sviluppo al sistema democratico del Paese.
Napolitano si è così proposto efficacemente come punto di riferimento e garante di un percorso non solo di conoscenza e sostegno civile ai familiari e/o alle vittime, ma anche di trasmissione della memoria evidenziata attraverso lo spazio d'intervento dato agli studenti dei vari gradi scolastici e ai figli delle vittime, custodi e fautori di una “post-memoria” che è fatta di elaborazione della conoscenza di sé ma dentro i fatti (Calabresi, Tobagi, Giralucci, Occorsio, Alessandrini; Bazoli ecc), nonché esempio di testimonianza e di un rinnovato impegno civile .
Ciò che appare invece “debole” - in parte comprensibile stante il senso della giornata sulle vittime – è il mancato riferimento alla necessità di “saper ascoltare” (e non soltanto condannare come protagonismo) anche il colpevole , inquadrando ciò nell'alveo di una necessità, quanto meno, di ricostruire in ogni aspetto e con ogni voce, la storia e il senso storico di quegli avvenimenti . Un aspetto che se opportunamente collegato alla “recuperabilità” della persona, quindi alla funzione della pena, aiuterebbe ad andare oltre la rancorosità e anche all'idea di molti che pensano di strumentalizzare la vittima al solo scopo di non affrontare le proprie responsabilità – di collocazione politica almeno – storiche di quegli anni e non soltanto fermarsi a ricostruzioni attuate entro la logica della contrapposizione. Quali prospettive? Si tratterà di dare, nel tempo, più opportunità di approfondimento di quegli anni , di sviluppare ancora di più il coinvolgimento della scuola, di facilitare interventi istituzionali a sostegno della “trasparenza storica” (informatizzazione e unificazione di tutti gli archivi).
Manlio Milani
Casa della memoria 28-maggio-1974 Brescia
Il rogo di Primavalle. Il corpo carbonizzato di Virgilio Mattei, 22 anni (Foto: Ansa).
Era la notte del 16 aprile 1973. Alcuni membri dell’organizzazione extraparlamentare di estrema sinistra Potere Operaio versano benzina sotto la porta dell’appartamento della famiglia Mattei . Vi abitano, al terzo piano delle case popolari di via Bernardo da Bibbiena, Mario, la moglie Annamaria e i figli.
Mario Mattei era allora il Segretario della Sezione “Giarabub” del Movimento Sociale Italiano, a Primavalle . L’incendio divampa veloce, in breve distrugge l’intero appartamento . Annamaria, la mamma, insieme ai due bambini più piccoli (Antonella, 9 anni, e Giampaolo di soli 3), riesce a fuggire dalla porta principale. Altre due figlie si salvano : Lucia, 15 anni, aiutata dal padre si cala nel balconcino del secondo piano e da lì si getta, presa al volo ancora dallo stesso Mario Mattei. Silvia, 19 anni, si lancia dalla veranda della cucina: riporterà solo qualche frattura.
Invece, va peggio agli altri due figli: Virgilio, 22 anni, militante missino nel corpo paramilitare dei Volontari Nazionali, e il piccolo Stefano di 10 anni muoiono carbonizzati . Il dramma si svolge sotto gli occhi della folla radunatasi davanti al palazzo . Il corpo carbonizzato di Virgilio rimane appoggiato al davanzale.
Le indagini della magistratura individuarono da subito la pista di Potere Operaio: il 18 aprile 1973 fu arrestato Achille Lollo come presunto responsabile (farà due anni di detenzione preventiva). Oltre a lui, vengono poi rinviati a giudizio anche Marino Clavo e Manlio Grillo, entrambi latitanti .
Il processo di primo grado iniziò il 24 febbraio 1975 e durò tre mesi, tra violente manifestazioni della sinistra extraparlamentare che, al grido di "Lollo libero", sostenne i tre imputati. Si chiuse con l'assoluzione per insufficienza di prove degli imputati .
In Appello, invece, i tre furono condannati per omicidio preterintenzionale a 18 anni di carcere. Nel frattempo, anche l’unico in stato di arresto, Achille Lollo , fu rilasciato in attesa di processo d’appello. Si rese latitante e si rifugiò in Brasile. Grillo fuggì in Nicaragua. Il terzo, Clavo, non è mai stato rintracciato .
La magistratura tornò a interessarsi del rogo di Primavalle nel 2005, in seguito a nuovi elementi emersi da una serie di interviste e ammissioni . Achille Lollo disse al Corriere della Sera che furono sei i partecipanti all’attentato , indicando anche i nomi degli altri tre membri del “commando”. Oreste Scalzone , all’epoca dirigente di Potere Operaio ammise ai microfoni di RaiNews24 che aveva aiutato due dei colpevoli a fuggire . Inoltre, Franco Piperno , all’epoca dei fatti Segretario nazionale di Potere Operaio, raccontò a Repubblica che il vertice di movimento era stato informato di tutto, anche se dopo che il fatto era avvenuto .
Infine, sempre nel 2005, Manlio Grillo ammise per la prima volta in un'intervista le proprie responsabilità. Non solo, confessò che la cellula terrorista di cui faceva parte era legata alle Brigate Rosse . Così il caso è stato riaperto, dalla Procura di Roma, ma con l’ipotesi di reato di strage, per il quale non si applica la prescrizione .
Nello stesso 2005 la famiglia Mattei sporse denuncia indicando come mandanti della strage tre dirigenti di Potere Operaio : Lanfranco Pace, Valerio Morucci e Franco Piperno.
Luciano Scalettari
I primi soccorsi dopo l'attentato a via dei Georgofili (Foto: Ansa).
Nella notte fra il 26 e il 27 maggio 1993, all’1,04, esplode un’autobomba. Siamo in pieno centro storico di Firenze, a due passi dalla Galleria degli Uffizi: via dei Georgofili , ai piedi della storica Torre del Pulci.
La macchina, una Fiat Fiorino, era stata imbottita di 250 chili di miscela esplosiva , composta da tritolo (T4), pentrite e nitroglicerina.
La deflagrazione, violentissima, provoca il crollo della Torre e devasta il centro storico per un’estensione di ben 12 ettari . Un impatto che è stato definito “bellico”.
Le vittime sono cinque: Caterina Nencioni di 50 giorni, Nadia Nencioni di 9 anni, Angela Fiume di 36, Fabrizio Nencioni di 39, Dario Capolicchio di 22 . Un’intera famiglia, i Nencioni, che risiedeva nella Torre perché Angela Fiume era la custode dell’Accademia dei Georgofili, che vi aveva la sede. Dario Capolicchio, invece, studente di architettura a Firenze, muore trasformato in una torcia umana dentro casa sua, nel palazzo di fronte alla Torre.
I feriti sono 48, moltissime famiglie rimangono senza tetto . Oltre agli Uffizi, vengono danneggiati diversi edifici d’interesse storico-artistico. Si perdono per sempre capolavori e preziosi documenti, ma soprattutto cinque vite .
In breve, le indagini individuano gli esecutori dell’attentato negli appartenenti a Cosa nostra . Dopo un lungo iter processuale vengono comminati 15 ergastoli, confermati in via definitiva dalla Cassazione il 6 maggio 2002.
Una parte della verità, quindi, è stata accertata. Solo una parte, però. L’associazione dei familiari delle vittime continua a chiedere di andare fino in fondo, alla verità . Specie per quegli aspetti che non sono mai stati chiariti, ossia ad esempio chi furono i mandanti . E con chi si “alleò” Cosa nostra nel piano stragista-eversivo di quegli anni.
Via dei Georgofili (come sottolinea l’avvocato Fabio Repici nel video del presente dossier) è solo una delle “tappe” di quella strategia , che comincio nel marzo 1992 con l’omicidio dell’on. Dc Salvo Lima e si concluse all’inizio del mancato attentato dinamitardo allo stadio Olimpico di Roma, che doveva avvenire nel gennaio 1994.
Una brutta storia che sembra legarsi, col procedere delle indagini (ancora tutte aperte) e dei processi, sempre più alla questione della Trattativa fra lo Stato e la mafia , avvenuta in quegli stessi anni.
Gli effetti della bomba (Foto Torrini-Fotogramma).
«Vi sono 150 persone che sono state a vario titolo toccate dalla strage» , dice Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell’Associazione familiari vittime della strage di via dei Georgofili . «Ancora dopo 20 anni non riusciamo ancora a dire e a scrivere tutto quello che sappiamo e che abbiamo capito. Perché ancora non ci sono le sentenze che lo confermano».
– Quali sono i punti fermi?
«Che è stata Cosa nostra a mettere in atto l’attentato. L’imput venne da Riina, Provenza e i Graviano . Lo confermano 15 ergastoli definitivi. Però, dai processi, emergono altre cose: ad esempio che la bomba aveva a che fare con la trattativa in corso fra lo Stato e la mafia. E che la trattativa ci fu . Non solo. Guardando a ciò che emerge anche dall’inchiesta della Procura di Palermo – il relativo processo inizierà fra poche settimane – fu lo Stato a cercare la mafia per fermare le stragi ».
– Chi potrebbe dare decisivo un contributo di verità?
«Quegli stessi uomini politici che sono stati rinviati a giudizio a Palermo, uno dei quali proprio per falsa testimonianza. Ma anche altri deputati ed esponenti dei partiti che finora hanno nascosto ciò che sanno , o si sono rifugiati nei “non so e non ricordo”».
– Non fu il primo caso in cui lo Stato si relazionò in qualche modo alla mafia.
«No, è vero. Ma non crediamo al fatto che le nostre istituzioni si misero a trattare con Cosa nostra solo per salvare la vita ad alcuni politici che la mafia voleva eliminare . Vogliamo sapere qual è la vera ragione del cedimento dello Stato. Qual è il segreto inconfessabile? Speriamo che qualcosa di nuovo emerga dal processo di Palermo, dove ci costituiremo parte civile».
– Per le famiglie che sono state colpite da fatti tanti gravi, quanto conta ottenere verità e giustizia?
«Ha un valore enorme. Quei fatti ci hanno cambiato la vita per sempre . Tutte quelle famiglie oggi hanno figli. Vogliamo consegnare loro la verità perché solo questo può dare una pacificazione e una qualche serenità. Il terrorismo ti paralizza . Quello che ti è accaduto ti dà terrore se non sai perché è avvenuto. Perciò conoscere i fatti e i moventi, fino in fondo, è di vitale importanza ».
Luciano Scalettari
VIDEO
Intervista all'Avvocato Fabio Repici , difensore di parte civile per l'Associazione Agende Rosse di Salvatore Borsellino e dell'Associazione nazionale vittime di mafia di Sonia Alfano. Repici è anche parte civile al processo Paolo Borsellino Quater come legale del fratello Salvatore (Intervista di Luciano Scalettari ).
"Mio fratello mi insegnò che la legalità non è solo rispetto delle regole ma della dignità dell'uomo."
Avere il coraggio di uscire dagli schemi e ribellarsi alle leggi ingiuste. È questo il messaggio di Giovanni Impastato, fratello di Peppino, ai ragazzi della scuola media di via De Nicola, nel quartiere popolare Sant’Ambrogio, estrema periferia sud di Milano. Due assemblee affollate, al mattino con i ragazzi e alla sera con i genitori.
Colpiscono i ricordi personali del fratello del militante di sinistra ucciso dalla mafia all’età di trent’anni, il 9 maggio 1978, e conosciuto grazie al film “I cento passi”. Racconta: “La prima rottura culturale fu all’interno della cerchia familiare. La nostra era una famiglia mafiosa; i miei ricordi familiari più intensi, come le carezze di mia madre e l’affetto di mio padre, sono legati alla villa dello zio Cesare Manzella, uno dei boss di Cinisi. Lì, con Peppino, catturavamo le lucertole, inseguivamo con poco successo le rane ed eravamo affascinati dalle lucciole. Giocava con noi anche un boss nascosto nel casolare dello zio e ricercato da tutte le polizie d’Italia. Era Luciano Liggio, l’assassino del sindacalista Placido Rizzotto”.
Tutto finì quando lo zio venne ucciso con un autobomba: “Rivedo la scena come una cartolina in bianco e nero. Io avevo 10 anni e mio fratello 15, ma diventammo subito grandi”. Peppino disse: “Se questa è mafia, io per tutta la vita mi batterò contro”. Sarà ucciso per questo esattamente quindici anni dopo, sempre con il tritolo. Prima, Peppino partecipa alle lotte sociali del suo tempo, dal movimento contadino a quello studentesco, aderisce ad alcuni gruppi della sinistra e partecipa nel 1967 alla “Marcia della protesta e della pace” organizzata dal suo amico Danilo Dolci contro la guerra in Vietnam. Ma soprattutto, insieme ad alcuni giovani del paese, avvia le iniziative culturali per combattere la mafia: ancora minorenne fonda il giornale L’idea socialista, chiuso con un pretesto dopo un articolo sulla mancanza di un campo di calcio a Cinisi, poi il circolo Musica e Cultura, e, dopo la liberalizzazione delle frequenze, Radio Aut.
Giovanni ricorda: “Per la controinformazione, scelse l’arma dell’ironia. Oltre alle macchiette sulle sedute del consiglio comunale di Mafiopoli e della sagra della ricotta, usava la cultura dei pellerossa per prendere in giro i mafiosi: Tano Badalamenti divenne Toro Seduto, mentre il sindaco Gero Di Stefano era il Grande Capo Geronimo. Quando la mafia perde un progetto speculativo, punta facilmente su un altro obiettivo, ma Peppino dava fastidio perché erodeva consenso sociale, ben più difficile da recuperare”.
Tornano i ricordi familiari: “Mio padre provò a salvare Peppino andando in America da alcuni cugini. Per questo tentativo venne ucciso: secondo l’etica mafiosa, mio padre avrebbe dovuto uccidere il figlio lui stesso o almeno lasciare mano libera ad altri”. Giovanni poi racconta della madre Felicia: “Quando Peppino fondò L’idea, girava le edicole comprando tutte le copie per proteggere il figlio e non far sapere cosa scriveva”. Il giorno del funerale di Peppino, di fronte alla bara vuota, disse: “Questo non è mio figlio, me l’avete fatto a pezzettini” e, rispondendo al commento del cugino americano “Peppino, sangue pazzo, ma era uno di noi”, aggiunse: “Non era uno di voi e io vendette non ne voglio”. La scelta per la giustizia, e il rifiuto della vendetta familiare, fu la vera rivoluzione di Felicia. In questi casi, le donne siciliane si richiedevano in casa con il velo nero e listavano le persiane a lutto, lei spalancò le finestre e aprì la casa agli amici di Peppino. Quel giorno cambiò la vita anche di Giovanni: “Pur condividendo in pieno le sue scelte politiche, non ho mai avuto il coraggio di mio fratello. Il giorno del funerale di mio padre, ad esempio, lui rifiutò di stringere la mano ai mafiosi, mentre io non ebbi quel coraggio e accettai le loro condoglianze. La consapevolezza che dovevamo radicalmente rompere con la mafia è arrivata per me con la morte di Peppino”.
E, rivolgendosi agli alunni della scuola milanese, ha aggiunto: “Il mio dialogo con lui, iniziato in profondità in quel giorno, continua tutte le volte che parlo a ragazzi come voi”. Nell’assemblea con i loro genitori ha aggiunto: “La mafia non può essere vinta solo con un approccio repressivo, di ordine pubblico, ma serve un impegno sociale e culturale, come quello dell’associazione Addio pizzo o delle cooperative di Libera. Grazie alla confisca dei beni di mafia, anche la casa di Badalamenti, il boss che fece uccidere mio fratello, a cento passi dalla nostra, è stata ora affidata al Centro Impastato”. Poi serve la verità: “Non possiamo raccontare ai ragazzi che la mafia è un antistato; spesso è dentro lo Stato, nella gestione del denaro pubblico e nella realizzazione delle grandi opere. Nelle indagini sulla morte di mio fratello, abbiamo incontrato uomini dello Stato che hanno perso la vita nella lotta contro la mafia (Chinnici, Falcone, Borsellino), ma anche chi ha depistato l’indagine, facendo passare Peppino per un terrorista, morto mentre organizzava un attentato, o un suicida”. Infine, Giovanni Impastato ripete a genitori e ragazzi il messaggio di suo fratello: “Spesso si parla di legalità solo come rispetto delle leggi e delle regole. Ma prima di tutto, la legalità è il rispetto della dignità dell’uomo; quando al centro della legge non c’è la dignità, dobbiamo lottare fino in fondo perché cambi. Anche Hitler agiva legalmente e Gesù stesso fu condannato perché colpevole secondo la legge. Se penso alle grandi battaglie per la legalità, mi vengono in mente Martin Luther King e Rosa Parks, che nel 1955, contro la legge, rifiutò di cedere il posto a sedere ad un bianco, dando così origine al famoso boicottaggio degli autobus”.
Stefano Pasta