Budapest
Dalla nostra inviata
«Non solo noi ungheresi, ma tutti gli europei hanno bisogno di lei». La presidente della Repubblica Katalin Novák ricorda a papa Francesco quanto sia vicina la guerra in Ucraina e come vivano la tragedia di tante mamme che stanno perdendo i figli, i mariti, i fratelli. «Ci aspettiamo che lei possa parlare con Mosca, con Kiev, con Washington, anche con Budapest, se serve» per fermare la guerra. La prima donna a guidare il Paese ricorda Santa Elisabetta che, mentre il marito era in guerra, portava il cibo ai poveri e, quando le guardie la fermarono per vedere cosa nascondeva, il pane si trasformò in rose. E le rose sono uno dei doni che l’Ungheria fa al Papa, «perché le porti nei giardini vaticani» insieme con il ricordo die poveri e del rinnovamento spirituale che «la sua visita rappresenta per noi».
Il Papa, in ritardo sul programma per essersi intrattenuto più a ungo del previsto con il premier Viktor Orban, incentra il suo discorso tutto sulla vocazione della città a essere testimone di storia, di ponti, di santità. «Questa capitale ha origini antiche, come testimoniano i resti di epoca celtica e romana. Il suo splendore ci riporta però alla modernità, quando fu capitale dell’Impero austro-ungarico lungo quel periodo di pace noto come belle époque, che si estese dagli anni della sua fondazione fino alla prima guerra mondiale. Sorta in tempo di pace, ha conosciuto dolorosi conflitti: non solo invasioni di tempi lontani ma, nello scorso secolo, violenze e oppressioni provocate dalle dittature nazista e comunista – come scordare il 1956?», ricorda Francesco facendo riferimento alla rivoluzione pacifica della popolazione che fu stroncata nel sangue dai carri armati sovietici.
Francesco sottolinea anche la capacità rigenerativa della città, tanto che sebbene durante la seconda guerra mondiale ci fu «la deportazione di decine e decine di migliaia di abitanti, con la restante popolazione di origine ebraica rinchiusa nel ghetto e sottoposta a numerosi eccidi», oggi «Budapest oggi è una delle città europee con la maggior percentuale di popolazione ebraica, centro di un Paese che conosce il valore della libertà e che, dopo aver pagato un alto prezzo alle dittature, porta in sé la missione di custodire il tesoro della democrazia e il sogno della pace».
Ricorda la fondazione di Budapest, avvenuta nel 1873 dalla fusione di tre città: Buda e Óbuda a ovest del Danubio con Pest, situata sulla riva opposta. «La nascita di questa grande capitale nel cuore del continente richiama il cammino unitario intrapreso dall’Europa, nella quale l’Ungheria trova il proprio alveo vitale». Ma oggi, con la guerra in Ucraina e tanti conflitti sparsi nel mondo «la politica comunitaria e per la multilateralità sembra un bel ricordo del passato: pare di assistere al triste tramonto del sogno corale di pace, mentre si fanno spazio i solisti della guerra». E mentre «sembra essersi disgregato negli animi l’entusiasmo di edificare una comunità delle nazioni pacifica e stabile, mentre si marcano le zone, si segnano le differenze, tornano a ruggire i nazionalismi e si esasperano giudizi e toni nei confronti degli altri. A livello internazionale pare persino che la politica abbia come effetto quello di infiammare gli animi anziché di risolvere i problemi, dimentica della maturità raggiunta dopo gli orrori della guerra e regredita a una sorta di infantilismo bellico». La pace però non può venire dal perseguimento dei propri interessi strategici, ma da una visione che guardi allo sviluppo di tutto. Il Papa vorrebbe che si tronasse all’anima europea, all’entusiasmo e al «sogno dei padri fondatori, statisti che hanno saputo guardare oltre il proprio tempo, oltre i confini nazionali e i bisogni immediati, generando diplomazie capaci di ricucire l’unità, non di allargare gli strappi». Cita Schuman che diceva che «la pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano». Ma oggi, si chiede il Pontefice, «anche pensando alla martoriata Ucraina, dove sono gli sforzi creativi di pace?».
Budapest è anche la città dei ponti, che «congiungono realtà diverse» e che «suggeriscono pure di riflettere sull’importanza di un’unità che non significhi uniformità. A Budapest ciò emerge dalla notevole varietà delle circoscrizioni che la compongono, più di venti. Anche l’Europa dei ventisette, costruita per creare ponti tra le nazioni, necessita del contributo di tutti senza sminuire la singolarità di alcuno».
Pensa a un’Europa che «non sia ostaggio delle parti, diventando preda di populismi autoreferenziali, ma che nemmeno si trasformi in una realtà fluida, se non gassosa, in una sorta di sovranazionalismo astratto, dimentico della vita dei popoli».
Il Papa condanna la via «nefasta delle “colonizzazioni ideologiche”, che eliminano le differenze, come nel caso della cosiddetta cultura gender, o antepongono alla realtà della vita concetti riduttivi di libertà» e parla di come si presenti come «conquista un insensato “diritto all’aborto”, che è sempre una tragica sconfitta».
Infine Budapest come città dei santi. Non solo Elisabetta, ma anche Santo Stefano, primo re di Ungheria «vissuto in un’epoca nella quale i cristiani in Europa erano in piena comunione; la sua statua, all’interno del Castello di Buda, sovrasta e protegge la città, mentre la Basilica dedicatagli nel cuore della Capitale è, insieme con quella di Esztergom, l’edificio religioso più imponente del Paese». Francesco ricorda che Santo Stefano fece a suo figlio, sant’Emerico queste raccomandazioni: «”Ti raccomando di essere gentile non solo verso la tua famiglia e parentela, o con i potenti e i benestanti, o con il tuo prossimo e con i tuoi abitanti, ma anche con gli stranieri”».
Santo Stefano motiva tutto ciò con genuino spirito cristiano, scrivendo: «”È la pratica dell’amore che conduce alla felicità suprema”». Questo, conclude papa Francesco, è un grande «insegnamento di fede: i valori cristiani non possono essere testimoniati attraverso rigidità e chiusure, perché la verità di Cristo comporta mitezza e gentilezza, nello spirito delle Beatitudini. Si radica qui quella bontà popolare ungherese, rivelata da certe espressioni del parlare comune, come ad esempio: “jónak lenni jó” [è bene essere buoni] e “jobb adni mint kapni” [è meglio dare che ricevere]. Da ciò traspare non solo la ricchezza di una solida identità, ma la necessità di apertura agli altri, come riconosce la Costituzione quando dichiara: “Rispettiamo la libertà e la cultura degli altri popoli, ci impegniamo a collaborare con tutte le nazioni del mondo”». Una prospettiva evangelica «che contrasta una certa tendenza, giustificata talvolta in nome delle proprie tradizioni e persino della fede, a ripiegarsi su di sé». E invece la Costituzione ungherese asserisce: «Dichiariamo essere un obbligo l’assistenza ai bisognosi e ai poveri».
Ciò richiama il prosieguo della storia di santità ungherese. «È importante che ogni cristiano lo ricordi, tenendo come punto di riferimento il Vangelo, per aderire alle scelte libere e liberanti di Gesù e non prestarsi a una sorta di collateralismo con le logiche del potere. Fa bene, da questo punto di vista, una sana laicità, che non scada nel laicismo diffuso, il quale si mostra allergico ad ogni aspetto sacro per poi immolarsi sugli altari del profitto. Chi si professa cristiano, accompagnato dai testimoni della fede, è chiamato principalmente a testimoniare e a camminare con tutti, coltivando un umanesimo ispirato dal Vangelo e instradato su due binari fondamentali: riconoscersi figli amati del Padre e amare ciascuno come fratello». Ancora Santo Stefano ammonisce: «Un paese che ha una sola lingua e un solo costume è debole e cadente. Per questo ti raccomando di accogliere benevolmente i forestieri e di tenerli in onore, così che preferiscano stare piuttosto da te che non altrove». Quello dell’accoglienza «è un tema che desta tanti dibattiti ai nostri giorni ed è sicuramente complesso.
Tuttavia per chi è cristiano l’atteggiamento di fondo non può essere diverso da quello che santo Stefano ha trasmesso, dopo averlo appreso da Gesù, il quale si è identificato nello straniero da accogliere. È pensando a Cristo presente in tanti fratelli e sorelle disperati che fuggono da conflitti, povertà e cambiamenti climatici, che occorre far fronte al problema senza scuse e indugi. È tema da affrontare insieme, comunitariamente, anche perché, nel contesto in cui viviamo, le conseguenze prima o poi si ripercuoteranno su tutti. Perciò è urgente, come Europa, lavorare a vie sicure e legali, a meccanismi condivisi di fronte a una sfida epocale che non si potrà arginare respingendo, ma va accolta per preparare un futuro che, se non sarà insieme, non sarà».