Accorsi Un
bel pomodoro in faccia alla mafia, condito da tante sapide risate.
Quelle che si è fatto pure don Luigi Ciotti, a
dispetto di Totò Riina e delle sue minacce, quando ha visto in
anteprima La nostra terra, il film di
Giulio Manfredonia ora nelle sale che racconta l’esperienza di una
scalcagnata cooperativa agricola di un paese del Sud che
cerca di ridare vita ai terreni confiscati a un boss. Un
film ispirato all’esperienza dei volontari di Libera e di altre associazioni che, letteralmente, si sporcano le mani per cambiare le cose. Volontari
che non vengono raffigurati come eroi, ma come persone comuni piene di
debolezze e contraddizioni, che alternano momenti di entusiasmo ad altri
di sconforto. A partire dal protagonista Filippo, il presidente della
cooperativa arrivato dal Nord e interpretato con gusto da Stefano Accorsi, e da Cosimo, l’ex fattore del
boss in cerca di riscatto, ritratto da uno strepitoso Sergio Rubini.
«È
proprio questo che è piaciuto a don Ciotti e agli altri volontari che
hanno collaborato al film», spiega Accorsi. «Per la prima volta sono
stati raccontati nella loro quotidianità. E l’ironia credo che possa
essere spesso molto più efficace della chiave drammatica per mostrare il
loro impegno».
Nel 1992, quando aveva poco più di
vent’anni, furono uccisi i giudici Giovanni Falcone e
Paolo Borsellino. In quegli stessi mesi scoppiò Tangentopoli,
l’inchiesta che vedremo presto raccontata su Sky in una serie da lei
ideata e interpretata. Cosa rappresentò per lei quel periodo?
«Come
tutti, fui sconvolto dagli attentati. Prima non avevo molta coscienza
dell’importanza del lavoro svolto dai due magistrati. Da allora ho
iniziato a documentarmi di più e quando scoppiò Tangentopoli ricordo la
forte speranza che crebbe in me affinché le cose potessero cambiare
davvero. Non è andata così, purtroppo: ogni giorno sentiamo di una nuova
inchiesta per corruzione. Il problema è che, come ripete il presidente
dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone, la luce sul
tema della legalità non si deve accendere solo nei momenti di emergenza:
un vero cambiamento culturale può avvenire solo nelle azioni quotidiane
che ciascuno di noi compie».
Lei da anni
fa la spola tra l’Italia e la Francia. Quanto è ancora forte
l’associazione tra la parola “mafia” e il nostro
Paese?
«È un’associazione molto facile e
quando la sento mi dà molto fastidio perché la gente ne parla come se
chiacchierasse al bar del tempo che fa. Però, d’altra parte, non solo in
Francia mi sono reso conto di un’altra cosa: quando diciamo di essere
italiani può scattare l’associazione con la mafia, ma è più forte il
senso di curiosità e di ammirazione verso di noi e questo mi riempie di
orgoglio. Se avessimo la cultura civica di altri Paesi, non ce ne
sarebbe per nessuno. Ma dobbiamo scegliere da che parte stare, come
fanno i protagonisti del film»
Lei che rapporto ha con l’altra protagonista del film, la terra?
«Se
parliamo di coltivazione diretta, nessuno: i pomodori preferisco
comprarli. Se parliamo invece di natura, adoro correre nei boschi con il
mio cane. Per girare questo film siamo stati due mesi in una zona
agricola e abbiamo avuto modo di confrontarci con i contadini che
vivevano lì. Tutto intorno non c’era niente, faceva molto caldo di
giorno e molto freddo di notte. Mi sono reso conto solo così di quanto
la terra, oltre a darti tanto, chieda tantissimo al tuo corpo e alla tua
anima: la pelle che brucia sotto il sole, la schiena che deve essere
spesso piegata. Sono davvero sensazioni primordiali che non avevo mai
provato».
Da piccolo chi erano i suoi eroi?
«Sono
cresciuto con i western di Sergio Leone, quindi dico Clint Eastwood. Mi
piacevano i suoi personaggi perché avevano sempre delle zone d’ombra.
Poi si trovavano invischiati in situazioni in cui erano quasi
“costretti” a tirare fuori il loro lato eroico. Ma quando tutto era
finito, montavano sul loro cavallo e sparivano nel nulla. Non erano eroi
classici che stavano sempre in primo piano e per questo mi era facile
identificarmi in loro».
Al cinema andava spesso?
«Piangevo
se i miei genitori non mi portavano: ogni “forse” per me diventava
automaticamente un “sì” e se invece poi non si andava ci restavo
malissimo. Finché a un certo punto spuntarono i primi videoregistratori.
Dopo un po’ i miei ne comprarono uno e io imparai subito a registrare i
film che davano di notte per potermeli rivedere il giorno dopo. Così,
davanti alla televisione, mi sentivo veramente il bambino più felice del
mondo».