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lunedì 07 ottobre 2024
 
 

Achille Bonito Oliva: l'opera ama essere visitata, non vuole stare chiusa in casa

06/02/2014 

La divulgazione dell’arte fa sempre discutere: si cerca il punto di equilibrio tra il purismo dei critici e il pubblico che accorre all’icona del momento. Ma è davvero un male se la gente fa la fila per La ragazza con L’orecchino di perla, la Gioconda o l’Urlo di Munch, anche senza capirne granché? Ne parliamo con Achille Bonito Oliva,  professore di storia dell’arte contemporanea alla Sapienza di Roma, dal 16 febbraio su Raitre con Fuori quadro, trasmissione della domenica dedicata all'arte.

Professor Bonito Oliva, è così grave che un’opera d’arte diventi un’icona, al limite una star?

«E' inevitabile, anzi l’icona può essere un cavallo di troia, un modo di incentivare un pubblico di massa. Io lo trovo legittimo. D’altra parte le mostre si fanno da oltre un secolo: nascono proprio per trasmettere l’arte a un pubblico vasto. L’icona richiama un pubblico vasto e ne fa un gruppo di ammirazione e l’arte vive di ammirazione. Vive anche di feticismo».  

Che cosa fa sì che un’opera diventi icona: perché la Gioconda sì e la Vergine delle rocce no, non è sempre Leonardo è?
«L’icona nella società di massa è frutto di una visibilità che nasce all’inizio dall’analisi che gli addetti ai lavoro fanno dell'opera e che ne determina il valore intrinseco. Poi questo valore si irradia nel sociale, attraverso gli aneddoti sulla vita dell’artista: Leonardo è inventore, forse omosessuale, è geniale, precorre i tempi, e questo colpisce l’immaginario. La sua onnipotenza creativa si concentra soprattutto nella Gioconda, opera enigmatica: la Gioconda ha un sorriso, che non è un riso, è un ammiccamento. Tutti elementi che sviluppano curiosità in soggetti che non hanno strumenti culturali specifici, ma vedono proiettato nell’opera il mito dell’artista».  

Se il valore intrinseco della Gioconda è per tutti assodato, quello della ragazza di Vermeer viene talora discusso da alcuni critici. Condivide la discussione?

«No, ci sono artisti che vivono nel loro studio, che non colpiscono l’immaginario e allora riesce difficile capire come un loro quadro possa diventare da solo un "acchiappasguardi", ma accade perché l’opera a volte parla da sé. Vermeer è frutto di una scuola puro-visibilista come quella fiamminga dove c’era una trasparenza pittorica, una limpidezza cromatica, per cui l'opera del genere fa l’effetto di un’apparizione mistica. L’emozione è un diritto dello spettatore davanti all’opera d’arte, il processo di conoscenza che si può sviluppare attraverso la cultura viene dopo».  

Perché una certa critica sminuisce questo aspetto emozionale?
«Perché c’è un atteggiamento elitario: c’è chi pensa che l’emozione sia preclusa a chi non ha un palato fine, ma non è così. L’emozione è un flusso non analfabetico, ma prealfabetico. Questo atteggiamento è un disprezzare il pubblico. Ma l’opera vuole incontrare il pubblico, l’opera vuole essere visitata: un quadro che sta in un museo è come un ragazzo che sta in collegio e aspetta i genitori la domenica. E infatti la mia prossima trasmissione Fuori quadro va su Raitre la domenica alle 13.20».  

Appunto, lei si accinge ad avviare una trasmissione Tv, che affronta l’arte da punti di vista diversi. Rientra in questo suo modo di concepire la divulgazione?
«Sì, io penso che nella società postindustriale esista la divisione del lavoro intellettuale in ogni campo. Il sistema dell’arte non fa ecezione: è una catena di Sant’Antonio in cui l’artista crea, il critico riflette, il gallerista espone, il collezionista tesaurizza, il museo storicizza, i media celebrano, il pubblico contempla. Questa catena produce un valore aggiunto. Per dico che sarà una “super-arte” con puntate tematiche: una trasmissione non di informazione, ma di formazione che in un canale generalista è una bella sfida».  

 Se torniamo al tema da cui siamo partiti vediamo che queste molte figure che ruotano attorno all'opera a volte entrano in rotta di collisione tra loro: è inevitabile o è una distorsione?
«E' sano se entrano in rapporto dialettico, se no è conflitto e non tutti i conflitti sono positivi. Tutti lavorano, ognuno produce un risultato, insieme concorrono all’obiettivo amato che è l’opera». 

Una delle obiezioni che spesso si fa alla divulgazione dell’arte, si parli di Tv o di mostre, è che staccare l’opera dal suo contesto è tradirla. È sempre vero o ci sono contesti e contesti?
«Un conto è una pala d’altare in una struttura gotica o un affresco che trova nella collocazione il suo scenario naturale, altra cosa è il quadro in cornice, mobile per sua natura. L’arte deve viaggiare. Poi ci sono opere che non possono viaggiare perché troppo delicate, ma questo è un altro discorso. Io credo che la politica culturale dell’arte debba essere il nomadismo, l’universalità».  

Abbiamo parlato del livello base, quello emotivo, e di quello elitario, dello studioso. Il pubblico ideale di Fuori quadro a che punto si colloca?
«Un pubblico plurigenerazionale: dalle elementari alla laurea, all’università della terza età».

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