Fruscii, fischi, crepitii, pulsazioni. Chi li sente sa benissimo di cosa stiamo parlando: di acufeni, ovvero quei fastidiosi suoni che non provengono da sorgenti esterne, ma dall’interno del nostro organismo e che vengono percepiti dall’orecchio. Spesso, chi li avverte, perché l’acufene è un sintomo e non una malattia, si è sentito dire che non esiste nessuna terapia e che deve rassegnarsi. Non è così perché sono state individuate tre tipologie principali e le relative terapie. «Percepire gli acufeni», specifica Giancarlo Cianfrone, direttore del Centro acufeni del Policlinico Umberto I di Roma, «non vuol dire soffrirne, perché possono provocare in molti casi solo un lieve fastidio. Altre persone avvertono un disagio generalizzato, che incide sul ritmo sonno-veglia, sulla capacità di concentrarsi e sui rapporti interpersonali. L’acufene è talvolta indicatore di una patologia nascosta che va indagata».
Gli acufeni quindi possono essere inquadrati in tre categorie. La più diffusa è quella di tipo uditivo-audiogeno, che deriva da un’alterazione o da un danno uditivo, anche non necessariamente grave. In sostanza, una grossa percentuale di persone che soffre di ipoacusia, una diminuzione dell’udito, presenta anche acufeni che possono essere individuati in modo semplice attraverso esami audiologici.
La seconda categoria è rappresentata dagli acufeni muscolo-scheletrici o somato-scheletrici che riguardano l’articolazione mandibolare o disfunzioni della colonna vertebrale, soprattutto nel tratto cranio-cervicale. «Abbiamo messo a punto una strategia diagnostica, un test per individuare se un acufene appartiene alla sfera audiologica o all’apparato muscolo-scheletrico», dice l’esperto.
La terza tipologia è legata al fattore psicologico. «Un fatto traumatico, come, ad esempio, il ricevere una brutta notizia, in soggetti ansiosi o stressati può generare un acufene che può mantenersi nel tempo. In questi casi abbiamo una serie di questionari che che misurano il livello di fastidio».
Ci sono situazioni in cui due o tutti e tre i fattori agiscono contemporaneamente ed è quindi necessario un lavoro di équipe con specialisti di diversi settori. «Noi audiologi e otorinolaringoiatri veniamo affiancati da consulenti come lo gnatologo, per quanto riguarda i problemi della mandibola, l’osteopata, che può essere utile in molti casi di disfunzioni muscolo-scheletriche, e lo psichiatra». Questo tipo di approccio è una novità. «Quando si va da un otorino, bisogna quindi accertarsi che abbia esperienza in questo ambito. La soluzione migliore è rivolgersi a un centro specializzato».
Gli acufeni colpiscono soprattutto la popolazione anziana, sia perché sono spesso legati alla sordità, sia perché l’uso di molti farmaci può avere effetti collaterali sull’orecchio. «Non dimentichiamoci, però», sottolinea il professor Cianfrone, «che i giovani sono molto più esposti ai rumori, se ascoltano musica ad alto volume nelle cuffie, in discoteca, ai concerti, e quando il danno uditivo è provocato dall’esposizione al suono la probabilità di un’insorgenza dell’acufene è molto più elevata rispetto a tutte le altre forme di ipoacusia». Gli acufeni si accompagnano anche all’iperacusia, ovvero l’intolleranza ai suoni esterni, anche non particolarmente forti, quotidiani. L’iperacusia può portare anche a comportamenti estremi: «Ci sono pazienti che cominciano a girare con i tappi per le orecchie ovunque, evitano determinati ambienti per la paura di essere infastiditi dai suoni e arrivano fino all’isolamento».
Veniamo ora alle principali terapie. «Se un paziente ha un acufene di tipo audiogeno derivante da una patologia come, ad esempio, la malattia di Ménière, che è una labirintite che produce acufeni, esiste una cura farmacologica. Ci sono poi ipoacusie legate a malattie curabili chirurgicamente, come l’otosclerosi: con l’operazione si risolve il problema della sordità e si migliora molto anche l’acufene». Per i disturbi muscolo-scheletrici, una volta individuato se la disfunzione è mandibolare o cranio-cervicale, saranno i consulenti specialistici a indirizzare il paziente verso un trattamento o un altro. «Se l’approfondimento psicologico ci porta a una definizione di una patologia, come, ad esempio, uno stato ansioso, o ansioso-depressivo, verrà intrapresa una terapia in quell’ambito. Il paziente tornerà poi da noi periodicamente per un controllo e, molto spesso, registriamo notevoli miglioramenti sulla tollerabilità del problema», spiega l’esperto.
Esiste poi una cura che può essere proposta in tutti e tre i casi: la terapia del suono, soundtherapy o Trt: la somministrazione di piccoli suoni, appena udibili, neutri, attraverso dispositivi diversi, da piccoli apparecchi acustici a generatori ambientali da mettere sul comodino. La somministrazione mirata, seguendo un programma ben determinato per alcune ore al giorno, 3-4 ore minimo, spesso nelle ore serali, quando la percezione degli acufeni si fa più intensa, può portare a una desensibilizzazione: «Grazie a questi piccoli segnali il cervello comincia a fare un proprio resetting, a diminuire la percezione di questi suoni così fastidiosi».
Questa terapia non può essere autogestita: prima è necessario fare un incontro con un terapista Trt, che insegna a usare questi dispositivi. Per i pazienti con ipoacusia si può utilizzare un apparecchio combinato, che permetta di correggere la sordità e che, allo stesso tempo, contenga un generatore di suono che serve per la Trt. La terapia del suono può andare bene per un’ampia categoria di pazienti. «L’unico limite è quando siamo di fronte a una patologia psicologica molto importante: in questi casi, preferiamo iniziare prima il trattamento specifico e poi si può cominciare anche la soundtherapy. Un messaggio fondamentale che diamo a tutti i pazienti con acufene», conclude il professor Cianfrone, «è che i trattamenti suggeriti non daranno un risultato immediato, perché gli acufeni provengono da un’elaborazione dal sistema nervoso centrale, che dopo la terapia deve riassestarsi e quindi ci vuole tempo, anche qualche mese».