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venerdì 24 gennaio 2025
 
Adam, superstite
 

Adam, «Ho raccontato la mia storia a Papa Francesco»

02/10/2014  Un giorno hanno bruciato la sua casa e il suo villaggio nel Darfur. Nel rogo ha perso due sorelline. L’hanno costretto ad arruolarsi con i ribelli, e si è trovato, col fucile in mano, davanti al fratello maggiore, costretto a combattere con i suoi “nemici”. «Non ci siamo detti nulla», dice. «Ho lanciato per terra il fucile e ho cominciato a correre». La sua fuga è finita in Italia. E davanti a Papa Francesco, a cui ha narrato le sue vicissitudini.

Adam, 33 anni, vive a Roma dopo essere scappato dalla guerra in Sudan. Ha avuto una «grandissima emozione» quando, lo scorso settembre, ha raccontato la sua storia a Papa Francesco, in visita dai Gesuiti del Centro Astalli. È un rifugiato con una storia che può sembrare eccezionale, ma che in realtà è un’esperienza comune ai tanti che sbarcano sulle nostre coste. È una storia di guerra, a cui Papa Francesco ha risposto con gesti e parole significative, che hanno indicato da che parte sta la Chiesa. Ha detto: «I conventi vuoti non servono alla Chiesa per trasformarli in alberghi e guadagnare i soldi. I conventi vuoti non sono nostri, sono per la carne di Cristo che sono i rifugiati». Da allora, varie parrocchie e comunità religiose, a Roma come nel resto d’Italia, hanno seguito questa indicazione.

Racconta Adam: «Tutto è cominciato quando dei militari hanno dato fuoco al mio villaggio nel Darfur. Le mie due sorelle più piccole di 4 e 6 anni sono morte tra le fiamme. Io sono stato costretto ad arruolarmi con i ribelli, mio fratello con l’esercito governativo». Due mesi dopo l’incendio, il giovane si trovava in mezzo a un conflitto con un fucile in mano: «Stavamo combattendo contro quelli che mi avevano ordinato di considerare nemici. Mai avrei pensato che quel giorno il nemico sarebbe stato mio fratello maggiore. Siamo rimasti paralizzati a fissarci negli occhi. Uno di fronte all’altro. Non ci siamo detti nulla. Ho lanciato per terra il fucile e ho cominciato a correre, a scappare».

La sua fuga è finita in Italia: «Noi rifugiati siamo i fortunati testimoni dei tanti che muoiono in guerra, che vengono uccisi da terribili dittature. La cosa più difficile per chi come me è rifugiato in Italia è far conoscere il dramma che vivono i nostri popoli. Non possiamo permetterci di cedere al dolore, di chiuderci in noi stessi, di considerarci vittime di un’ingiustizia. Se facciamo così offendiamo la memoria di chi non ce l’ha fatta». Spesso non è facile: «È difficile, ma non possiamo non provarci. Molti di noi quando arrivano sono pieni di speranza e aspettative, convinti che il peggio ce lo siamo lasciati alle spalle. Invece troppo spesso dobbiamo ricrederci. Un letto, un pasto caldo, un luogo da chiamare casa e in cui riprendersi dalle fatiche del viaggio e dagli orrori della guerra per tanti di noi non c’è». Nel 2004, quando Adam è arrivato in Italia, abitava nei pressi della Stazione Tiburtina, in un magazzino insieme a 400 persone, dove «l’integrazione diventava un sogno più che un progetto». Oggi, secondo il Centro Astalli, si stima che a Roma siano almeno 2.500 i rifugiati che vivono ai margini della società, in condizioni di assoluto degrado, tra le occupazioni di lungo corso (Collatina, Romanina, Ponte Mammolo...) e le nuove, come Colle Oppio e il palazzo dell’ex Ispra di Piazza Indipendenza.

Grazie agli amici del Centro Astalli, che sono diventati «la mia casa, la mia seconda famiglia», Adam non si è arreso e ce l’ha fatta, prima la scuola d’italiano e poi il lavoro: «Ora vivo bene, ma mi manca la mia famiglia. Non posso tornare nel mio Paese e non li vedo da dieci anni, solo ogni tanto riesco a parlare con mio fratello che vive nella capitale».

Al termine del suo incontro con il Papa, ha rivolto un appello che risulta attuale in questi giorni di sbarchi: «Il viaggio che noi affrontiamo per chiedere asilo in Europa è un crimine contro l’umanità. Eravamo in 170 sulla barca che dalla Libia ci ha portato in Italia, ognuno di noi ha pagato 1200 dollari per affrontare il mare. Molti di noi hanno pagato il biglietto per incontrare la morte. Chiedere asilo non può essere un tragico modo di perdere la vita».

È la questione che pone anche Padre Giovanni La Manna, presidente del Centro Astalli, nell’introduzione del Rapporto 2014: «L’operazione Mare Nostrum ha salvato moltissime vite. Resta però senza risposta la domanda più importante: come si può evitare che persone che hanno diritto alla protezione siano costrette a viaggiare in condizioni tanto rischiose e costose? Da tempo chiediamo di creare canali umanitari che permettano di far arrivare in sicurezza chi ha diritto a chiedere asilo in un Paese democratico, sottraendo a trafficanti senza scrupoli il destino di migliaia di rifugiati».

Cosa rispondere di fronte ai continui arrivi di rifugiati in Europa? Dopo aver ascoltato la storia di Adam, Papa Francesco ha indicato la rotta: «Solidarietà: una parola che fa paura al mondo più sviluppato. Si cerca di non pronunciarla. È quasi una parolaccia. Ma è la nostra parola! Servire significa riconoscere e accogliere le domande di giustizia, di speranza, cercare insieme delle strade, dei percorsi concreti di liberazione. I poveri sono maestri privilegiati della nostra conoscenza di Dio; la loro fragilità e semplicità smascherano i nostri egoismi e ci guidano all’esperienza della vicinanza e della tenerezza di Dio».


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