Lo hanno chiamato in tanti modi, appellativi quasi tutti perfetti perché il personaggio era poliedrico e ogni lato giustificava la presenza di quello accanto, senza il quale non prendeva forma. Il cardinale Giacomo Biffi è stato soprattutto un leone con la porpora, sempre fedelissimo al suo motto episcopale “Ubi fides ibi libertas”. Basterebbe questo per rendergli omaggio. Uomo di intelligenza somma, intellettuale vero e altrettanto vescovo e prete. L’intelligenza non guasta mai permette di vedere e considerare le cose anche con maggior misericordia. Ascoltava e discuteva, polemizzava anche. Lui che si era formato sulla cattedra di San Ambrogio, aveva imparato ad essere emiliano e romagnolo sulla cattedra di San Petronio, perché Bologna è su un confine sensibile e non ha mai temuto di essere criticato quando, come si dice, non le mandava dire.
Fu così anche per Berlusconi e per Prodi. Quando l’ex-Cavaliere scese in campo nel 1994 sentenziò: “I milanesi non ci sanno fare in politica, brutto segno se smettono di fare gli imprenditori”. Quattro anni dopo ne ebbe per Prodi: “Dopo l’ulivo mi porta via anche l’asinello, di questo passo non mi resta niente”. Non era certo un progressista nel senso comune e quando a Bologna s’interruppe la filiera delle giunte rosse con l’elezione di Guazzaloca nel 1999 lui la definì un “miracolo”. Non era chiaro se fosse contento o se anche qui ci fosse una punta della sua ironia spietata. Ha retto la cattedra di san Petronio per 19 anni. Lo hanno perseguitato per anni due aggettivi che appioppò, qualcuno disse, alla sua città: “Bologna sazia e disperata”. Venivano ripetuti come un mantra quando si doveva parlare di Giacomo Biffi. Lui più volte ripeté che furono parole mal riportate e che si riferivano all’Emilia Romagna intera e non a Bologna. Ma si sa che quando le parole prendono la via dei giornali è quasi impossibile controllarle.
Eppure Biffi mai si sottrasse al confronto anche con i giornalisti. Ci sono interviste memorabili, anzi intervistarlo era puro piacere professionale. Mai una parola in “ecclesialese”, orizzonti larghi, da Proust a Pinocchio, sul quale aveva scritto un libro stupendo, passando per Bologna naturalmente, il Concilio i suoi uomini ei suoi teologi. E poi l’attualità, Bob Dylan compreso che invitò a Bologna insieme a Giovanni Paolo II per il Congresso eucaristico nazionale nel 1997. Era uomo di lotta e ruggiva, sapeva sbaragliare ogni retorica anche ecclesiastica. Non sempre con lui molti erano d’accordo. E lui non si faceva problema a dichiarare la sua opposizione. Con l’altro bolognese Giuseppe Dossetti, monaco e sacerdote, oltre che memoria della Dc, della Costituzione e di tanto altro non ebbe un rapporto facile. Anzi potremmo dire che ebbe un rapporto complesso tessuto più di contrappunti che di linearità. Ma celebrò il suo funerale e lo definì “autentico uomo di Dio”. Tuttavia non mancò di discutere anche dopo la sua morte molte cose dette e scritte da Dossetti.
Biffi era uomo, prete e vescovo autentico, che non si nascondeva dietro la patina della convenienza o le ombre della presunta correttezza ecclesiastica. Gli abbracci falsamente comunitari gli stavano stretti e lo diceva, perché di solito erano falsi. Era un uomo che parlava diritto, schiettezza evangelica si potrebbe dire, senza perdersi in giri di frase che rendono opaco e non trasparente il contenuto. Basta rileggere oggi il suo ultimo libro sulle pecore e sui pastori, nel qualche coglie vizi e formalismi sui quali Papa Francesco sarebbe assolutamente d’accordo. Scriveva ad esempio che oggi ciò che è riprovevole è l’uso del “teologhese”, un modo “di parlare e di scrivere che rifugge dalla chiarezza senza riuscire per altro ad essere davvero sostanzioso e profondo”. E poi colpiva ancora più a fondo, senza timore, sottolineando che chi annacqua il messaggio evangelico, che è radicale, lo fa non perché non lo capisce, ma “perché non gli piace”. Pungente e ironico. E’ morto a 87 anni e ci mancherà.