Il “lupo marsicano” di San Pio delle Camere, seicento anime abbarbicate sull’Appennino abruzzese, arrivò a tanto così dal diventare presidente della Repubblica. Lui, ufficiale degli alpini, sarebbe stato il presidente del cappello con la penna nera, solo perché l’immancabile pipa già aveva contraddistinto Sandro Pertini. Quella del 2013 invece per Franco Marini fu l’apice e l’epilogo, un po’ amaro, di una lunghissima, brillante carriera politica e sindacale, iniziata oltre mezzo secolo prima. Una carriera segnata da passione, impegno civile, condito col pragmatismo tipico dei montanari, e ispirato dai valori più forti del cattolicesimo sociale, vissuto in modo genuinamente laico, mai inutilmente proclamato.
L’ex leader della Cisl e presidente del Senato, si è spento all’età di 87 anni, per complicazioni legate al covid. Classe 1933, combattente di razza, dal carattere aspro, ma schietto, uomo che amava andare alla sostanza, a volte anche senza smussare troppo gli angoli, se era necessario per ottenere il risultato: poche cerimonie, meno parole, e dritto all’obiettivo. Anche per questo Romano Prodi che fu compagno di partito e di cento battaglie, qualcuna anche come avversario, lo inserì nel “bestiario” politico con l’appellativo di “lupo marsicano”. Soprannome che non gli dispiaceva troppo.
Marini era nato in un’umile famiglia operaia abruzzese. E di sindacato, dopo la laurea in giurisprudenza, si occupò prestissimo proprio nell’azienda tessile dov’era occupato il padre. La trattativa sindacale era il suo pane quotidiano e questa abilità gli sarebbe servita pure nell’impegno politico vissuto sempre come servizio alla comunità. Quello del sindacato era invece una vera e propria “missione”, com’ebbe a dire.
Già la politica, altra passione genuina e totale. Ovviamente nelle fila della Dc, dove si iscrisse nel 1950. Sarebbe poi passato alla Margherita e infine al Pd. Attivo nell'Azione Cattolica e nelle Acli fin da ragazzo, avviò l’impegno sindacale in un ufficio contratti e vertenze della Cisl. Discepolo di Giulio Pastore ebbe come maestro e mentore Carlo Donat-Cattin, leader democristiano che lo volle alla guida di Forze nuove, la corrente Dc storicamente più vicina al mondo del lavoro. Segretario generale della Cisl dall’1985 al 1991, proprio in quell’anno sarebbe entrato nel governo Andreotti con la delega, ovviamente, al Lavoro e alla Previdenza sociale. Anni di grandi rivolgimenti politici e aspre lotte operaie, “Autunno caldo”, con sullo sfondo il periodo più buio del terrorismo. Anni in cui Cgil, Cisl e Uil erano il più grande sindacato europeo. E quando in piazza parlavano Marini, Benvenuto e Pizzinato c’erano ancora le folle oceaniche. Quando l’Italia, non solo quella operaia, "si faceva in tre". Qualcuno ricorda anche, quando da leader della Cisl, chiese udienza a Giovanni Paolo II perché intercedesse a favore della liberazione di un dirigente sindacalista cileno incarcerato dal regime di Pinochet. Il Papa lo ricevette e qualche giorno dopo il sindacalista fu liberato.
Tornando al Marini politico, il segretario DC Mino Martinazzoli gli affida la segreteria organizzativa del partito, fino alla nascita del Partito popolare italiano, di cui fu segretario dal 1997 al 1999. Come candidato dell’Unione, Marini viene eletto alla presidenza del Senato il 29 aprile 2006 con 165 voti, dopo un testa a testa con Giulio Andreotti, che era sostenuto dal centrodestra. Un’altra delle sue battaglie vinte in salita, come un ciclista scalatore. D’altra parte uno dei suoi idoli sportivi era stato proprio Gino Bartali. E l’alpino, che conosce a fondo l’amata montagna, sapeva bene fin dove spingersi, senza restare senza fiato. Sette anni dopo l’ascesa a Palazzo Madama, non gli sarebbe riuscito, tuttavia, il bis nella corsa al Colle. Il lupo s’era fatto impallinare dai “franchi tiratori”. “Acqua passata”, commenterà negli anni a seguire, scrollando le spalle grosse, e tenendo il sigaro acceso.
E oggi suonano come un lucido e attualissimo monito, quasi un testamento politico, le parole del discorso del suo insediamento in Senato, quando il “lupo” ebbe a dire: "La forza di una democrazia matura come la nostra risiede anche nel saper convergere insieme sulle decisioni e le scelte migliori per il nostro Paese; farlo senza il timore di perdere le nostre identità, che sono un bene prezioso, e le stesse responsabilità che hanno maggioranza e opposizione". Pare quasi che il presidente Mattarella abbia ricordato quella frase, incaricando Draghi pochi giorni fa.