La copertina dell'edizione italiana del libro (San Paolo, 2017)
Giornalista molto stimato e rispettato, considerato un mentore e un consigliere saggio da molti giovani colleghi della stampa cattolica francese, caporedattore aggiunto a La Vie, Jean Mercier era un vaticanista competente e rigoroso, saggista brillante e ironico, un fine intellettuale poliglotta. Gli amici lo ricordano come un fuoriclasse destinato al successo, ma anche come una persona generosa con tutti, i colleghi per primi, molto esigente anche con se stesso e d’indole gioiosa e scherzosa, sempre pronto alla battuta, leale, uno di quei rari soggetti capaci di combinare la forza e la determinazione con una spiccata sensibilità. Jean Mercier, ha scritto il direttore del settimanale francese La Vie, Jean Pierre Denis, era tutto questo e tante altre cose, talmente tante che è difficile ricapitolarle tutte. E ha aggiunto: «Ci si domanda talvolta se si può essere giornalisti e testimoni di fede a un tempo. Jean ci mostra che si può essere entrambe le cose in modo intimo e indissolubile. Il giornalista cristiano è colui che cerca la verità senza trasformarla, né farsi trasformare da essa. Jean ha fatto questa esperienza cominciando il suo itinerario dal protestantesimo. Mi ricordo di avergli domandato di riscrivere completamente uno dei suoi articoli… Gli fu necessario ripartire da zero dopo una notte di lavoro. Jean protestò ma si rimise all’opera. E il risultato fu magnifico. Questa onestà l’ha portato a riconsiderare parecchio le idee che aveva a proposito di Benedetto XVI. Quando quest’ultimo fu eletto, non era tanto entusiasta. Ma egli è diventato, con un sicuro coraggio intellettuale, uno dei migliori specialisti di questo pontificato incompreso». L'autore del best-seller internazionale Il signor parroco ha dato di matto, pubblicato in Italia dalle Edizioni San Paolo, si è spento lo scorso 19 luglio all’età di 54 anni dopo tre anni e mezzo di «lotta immensamente coraggiosa» contro il male che gli è stato fatale. Era appassionato di scrittura, ma anche di storia, la moglie Chantal Crétaz ha raccontato che già a 10 anni aveva scritto le biografie di due sovrane: Maria Antonietta e Sissi d’Asburgo. Aveva un grande feeling anche con l’Inghilterra, dove aveva frequentato parte della scuola durante l’infanzia e dove aveva anche lavorato un anno alla sede del Crédit lyonnais di Londra, dopo gli studi in economia e commercio all’Edhec di Lille. Aveva poi lasciato il mondo della finanza per quello della teologia e del giornalismo, entrando nel settimanale cattolico francese nel 1999. Oltre che per il romanzo umoristico sul parroco in crisi, Mercier era conosciuto anche per il saggio sul celibato dei sacerdoti dato alle stampe nel 2014.
Ha scritto l’Osservatore Romano: «Queste due opere, apparse a pochi anni di distanza tra loro, testimoniano una riflessione profonda, ma sempre animata dalla preoccupazione di restare accessibile, su uno dei suoi temi preferiti: il ministero sacerdotale. E aveva affrontato questo tema sia attraverso la ricerca teologica e sociologica che nei suoi aspetti più concreti della vita pastorale, e affettiva, dei preti che incontrava. Era del tutto a suo agio nel mondo delle idee e nel dibattito intellettuale, ma era anche impegnato a rendere conto della complessità del reale. Fine osservatore, brillante analista e straordinario cronista della vita della Chiesa e delle vicende dell’animo umano, aveva una penna precisa e leggera, affilata e colorita. Aveva il dono di rendere le cose limpide senza banalizzarle. Questo spiega perché il suo don Bucquoy, l’eroe di Monsieur le curé fait sa crise, ha parlato al cuore di tante persone, sacerdoti, religiosi o laici, come dimostrano la corrispondenza e le lettere che continuano ad arrivare, poiché ognuno in questo nuovo Don Camillo riconosce un po’ di se stesso. In quella tentazione di fuga che nasce quando la stanchezza delle discussioni inutili e la sete di autenticità diventano cocenti, tentazione a cui rimediano - e da cui salvano - l’amore degli altri e quello di Dio. Come scriveva Bernanos, uno dei suoi autori preferiti, "la speranza è una determinazione eroica dell’anima, e la sua forma più alta è la disperazione vinta. Uno crede che sia facile sperare. Ma sperano solo coloro che hanno avuto il coraggio di disperare delle illusioni e delle menzogne, nelle quali trovavano una sicurezza e che scambiavano facilmente per speranza. La speranza è un rischio da correre, è addirittura il rischio dei rischi. La speranza è la vittoria più grande e più difficile che un uomo possa riportare sulla sua anima". La leggerezza, per lui, era una forma di eleganza non cosmetica, un modo di essere profondo senza far gravare sull’altro un fardello pesante da portare. Non sopportava le facce da peperoncino all’aceto, i volti falsamente compassati. E la sua leggerezza era un’espressione di gioia. Era soprattutto un uomo di fede che ha cercato per tutta la vita di seguire le orme di Cristo con umiltà, impegno e irraggiamento. La sua parola era ferma, il suo sì era un sì, il suo no era un no. Qualche giorno prima di morire, durante la messa, dopo aver a lungo contemplato la Croce, aveva pronunciato queste parole: "La pace di Cristo... per sempre". Negli ultimi giorni della sua lotta contro la malattia andava in giardino, mai sazio della presenza dei suoi familiari, della bellezza degli alberi e di quella, inebriante, dei fiori, del canto degli uccelli, o della luce che sembrava al tempo stesso assorbire ed emettere. Si è spento con una grande lucidità piena di pace, amando appassionatamente la vita, lo sguardo rivolto a Cristo pronto a uscire dal sepolcro».