Giampaolo Pansa, morto a 84 anni il 12 gennaio, è stato uno dei grandi del giornalismo italiano dell’ultimo mezzo secolo. Era grande per la insaziabile curiosità e per la passione da cronista che non lo abbandonava mai. Vederlo al lavoro era una lezione di giornalismo.
Intanto, era sempre il primo ad arrivare. Franco Recanatesi, in un libro dedicato alla storia di Repubblica (La mattina andavamo in piazza Indipendenza), racconta che Pansa, inviato a Palermo per il maxiprocesso alla mafia, alla vigilia della prima udienza lasciò di stucco gli altri inviati di Repubblica dando appuntamento alle 5 per la colazione della mattina dopo. Pansa sapeva che ci sarebbero state code lunghissime di cronisti e lui voleva essere lì prima degli altri. “Sul terreno della cronaca stracciava ogni rivale”, scrive Recanatesi.
Anche ai congressi di partito della prima repubblica Pansa era il primo ad arrivare in tribuna stampa. Era armato di taccuino e binocolo da teatro con il quale seguiva da vicino volti e fatti di quegli eventi che monopolizzavano per giorni la vita politica italiana. Così riusciva da par suo a raccontare cose che gli altri non vedevano. Pansa era già un giornalista stagionato e con i galloni di vicedirettore di Repubblica, eppure restava un cronista. Ne ebbi la dimostrazione a un Congresso del Partito Repubblicano a Firenze alla fine degli anni Ottanta. Di solito i congressi del PRI erano eventi molto sonnacchiosi rispetto a quelli più agitati degli altri partiti e la facondia di Giovanni Spadolini era micidiale. Ma il giorno di apertura di quel congresso accadde l’imprevisto. La delegazione democristiana arrivò in ritardo, quando già Spadolini aveva cominciato a parlare da un pezzo. Per far spazio a De Mita e agli altri dirigenti democristiani fu chiesto a vari delegati repubblicani di alzarsi dalle prime file, ma questi si rifiutarono e iniziarono a gridare. Si scatenò il putiferio. Urla, fischi, spintoni. Scene mai viste a un congresso dei miti repubblicani. Pansa fiutò la notizia e con ampie falcate si precipitò dalla tribuna stampa fin sotto il palco, con il taccuino in mano, per raccogliere le voci di chi contestava.
Un altro ricordo risale a un Congresso della DC al Palaeur di Roma nel 1989. Il sabato mattina Pansa, come sempre, arrivò per primo e trovò la tribuna stampa occupata da decine di militanti sostenitori non ricordo più se di Gava o di De Mita. Erano quei tifosi sfegatati dei vari leader Dc che proprio Pansa, se non sbaglio, aveva ribattezzato “truppe cammellate”. Pansa scatenò il putiferio, andò a protestare da Mastella (che curava l’ufficio stampa del partito) e istigò una clamorosa e rumorosa protesta dei giornalisti. Ricordo che Sandra Bonsanti, di Repubblica, si sfilò una scarpa a cominciò a battere il tacco sul ripiano della tribuna stampa. Perfino il mite Beppe Del Colle, vicedirettore di Famiglia Cristiana, trovò non so come una sbarra di ferro che cominciò a battere sempre più forte sul tavolo. Pansa se la rideva mentre Fanfani, al tavolo della presidenza, strillava come un ossesso senza capire che cosa stava accadendo.
Era un piacere e una lezione veder lavorare Pansa, ma il piacere era ancora più grande nel leggerlo il giorno dopo. Certo, Pansa non faceva sconti a nessuno. Come scrive oggi Walter Veltroni sul Corriere della Sera “I suoi giudizi su chi amava o detestava non erano mai pregiudiziali. E mai definitivi, anche se potevano essere molto aspri. E persino ingiusti”.
Finì la prima repubblica, finirono i congressi e Pansa si ritirò in Toscana soprattutto per scrivere libri e tenere rubriche sui giornali. Ormai il binocolo gli serviva solo per guardare gli uccelli della campagna senese. Nel novembre del 2017 gli spezzò il cuore la morte per infarto del figlio Alessandro, stimato manager. Essergli sopravvissuto gli pesava come una colpa.