Due ragazzi escono dalla discoteca sotto l’effetto dell’alcol. Trovano lungo la strada due cassonetti della spazzatura. Decidono di buttarli giù dal dirupo che sta sotto. Così per gioco. Senza pensarci troppo su. Uno dei due cassonetti si schianta sopra la tenda all’interno della quale dorme un preadolescente francese che insieme alla sua famiglia sta trascorrendo le vacanze in Italia. Trasportato in ospedale in condizioni gravissime, le sue condizioni sono tuttora molto critiche.
I due ragazzi responsabili del gesto leggono la notizia sui giornali. La sera prima erano obnubilati dall’alcol, ma il giorno dopo invece sono lucidi. Comprendono che la colpa è loro: sanno che le loro mani hanno sollevato quegli oggetti e li hanno buttati giù. Mentre tutta l’Italia si domanda chi può essere stato così irresponsabile da macchiarsi di un delitto tanto efferato quanto inutile, loro non sanno cosa fare, probabilmente. I media continuano a seguire il fatto e a dare aggiornamenti sulle condizioni di salute del giovane ferito. La ricerca del colpevole va avanti ed è particolarmente complessa perché il tratto in cui il fatto è successo risulta sprovvisto di videocamere.
Alla fine, dopo alcuni giorni, il colpevole si presenta in questura. “Sono stato io. Mi spiace, quella sera ero sotto l’effetto dell’alcol e quando ho fatto quel gesto non immaginavo che sotto ci sarebbe stato qualcuno”.
E’ l’ennesimo fatto di cronaca che ci racconta di un mix di irresponsabilità, stupidità, superficialità che nelle azioni dei giovanissimi si trasforma in tragedia. Posti di fronte all’accaduto e alle conseguenze, l’unica frase che sanno dire a loro discapito è: «Non immaginavo che dalla mia azione potesse scaturire un simile danno». Come a dire: «Non l’ho fatto apposta. Oppure: Sì, l’ho fatto ma non volevo che succedesse quello che io stesso ho provocato».
Questo genere di frasi è tipico dei preadolescenti, ovvero dei nostri figli che frequentano le medie inferiori. Il loro cervello, così ci dicono le neuroscienze, è particolarmente predisposto a cercare eccitazione e sensazioni facili senza troppe “complicazioni cognitive”. Insomma i 12-13enni hanno un cervello da “sensation-seekers” che li spinge a cercare eccitazione ed emozioni intense senza prevedere e calcolare l’eventuale conseguenza delle azioni che fanno per procurarsele. Per questo motivo, i genitori li devono supervisionare in tutto. Devono fornire loro un paio di ali, ma allo stesso tempo le prove di volo dei figli devono avvenire in un territorio controllato, con un monitoraggio di tutto.
Dopo i 15 anni, la situazione dovrebbe cambiare. La ricerca di emozioni facili e di eccitazione immediata (e troppo spesso senza senso e senza alcun significato evolutivo) dovrebbe lasciare il posto ad un modo di agire più responsabile e autoregolato. Nel cervello del sedicenne – ci dicono le neuroscienze – i neuroni dei lobi frontali (ovvero la materia grigia che sta dietro la fronte e che è responsabile dell’alto funzionamento mentale che connoterà poi l’adultità) cominciano a fare il loro mestiere. Pensare prima di agire: è l’unico antidoto valido ad azioni che, quando le compi e fai un danno, ti portano a dire, come giustificazione: “Non volevo. Non avrei immaginato di colpire qualcuno lanciando un cassonetto”.
Purtroppo, come genitore e specialista dell’età evolutiva, provo sempre più spesso sconcerto e scoraggiamento. Il 17enne che lancia un cassonetto fuori dalla discoteca non deve sperare che sotto non ci sia nessuno. Perché se fa così, l’unica prevenzione delle tragedie che rimane disponibile consiste nel riempire le spiagge di cartelli con su scritto: «Nella strada che ci sovrasta ci sono cassonetti. Siccome a qualcuno potrebbe venire voglia di gettarli giù, vi conviene cercarvi un altro luogo per le vostre vacanze». Oppure, nella prospettiva dell’attuale classe politica che ci governa, la soluzione potrebbe consistere nel riempire ogni centimetro quadro di suolo calpestabile con videocamere di sicurezza, così quei “bastardi” e quei “ragazzacci” li andiamo a scovare a bordo di un esercito di “ruspe”. E mentre continueremo a ragionare così, i nostri figli si troveranno a crescere sempre più irresponsabili e con i loro lobi frontali sempre più immaturi e irrimediabilmente compromessi e incapaci di formare reti neuronali capaci di sostenere azioni responsabili, empatiche, consapevoli.
Come adulti, come genitori, come educatori dovremmo riflettere sul perché siamo arrivati a questo punto: perché all’età in cui ci si può muovere per il mondo in autonomia approfittando di una libertà autogestita, alcuni giovanissimi usano queste due dimensioni – autonomia e libertà – per fare danni terribili e non per esplorare il lato migliore della vita, quello che li renderebbe capaci di goderne appieno e per davvero, permettendo a loro di diventare persone migliori, capaci di rendere il mondo un posto migliore in cui vivere.
Chi educa oggi alla responsabilità, all’empatia, alla consapevolezza? Quale genitore, prima di “sdoganare” la libertà dei figli permettendogli di andare in giro per il mondo, si impegna ad allenare quella “libertà” affinchè - nel momento in cui verrà messa in gioco – venga direzionata verso obiettivi sani e funzionali? Perché il mondo in cui sono immersi i nostri figli continua a raccontare loro la vita alla stregua di un “luna park” dove ciò che vivi è come un giro di giostra: ci sali, ti diverti, poi scendi e non ci pensi su. L’unica cosa che conta è che tu abbia “sentito” moltissimo e pensato a niente.
Ogni giorno mi pongo queste domande. Ogni giorno mi chiedo chi può oggi invertire la marcia. E guardandomi intorno comprendo che un genitore da solo può fare molto, ma non può fare tutto. Occorre che noi mamme e papà ci rimettiamo in rete, impariamo a definire tutti insieme quali sono i sì e i no che aiutano a crescere e soprattutto che quei sì e quei no impariamo a dirli in modo autorevole ed efficace ai nostri figli, convinti che questo è un nostro dovere. Oltre che un nostro diritto.
Io personalmente sono grato al sacerdote responsabile dell’oratorio della nostra parrocchia. Quest’anno ha portato in vacanza per una settimana i miei due figli maggiori insieme ad altri 50 adolescenti e giovani (età minima 16 anni), proponendo loro incontri con responsabili di comunità, un giorno di raccolta dei pomodori, due pomeriggi al mare e l’incontro con gli abitanti di un paese distrutto dal terremoto. I ragazzi hanno osservato la vita in tutta la sua meraviglia e in tutta la sua fatica. Si sono confrontati con il dolore e con la bellezza. Mi sembra un bell’esercizio di allenamento alla vita e di confronto con il principio di realtà. Posso solo sperare che questo genere di esperienze permetta a loro, quando vedono un cassonetto, di utilizzarlo semplicemente per gettarvi all’interno la spazzatura.