La morte è la misura definitiva
d’ogni vita. La vita di Adriana Zarri,
eremita, teologa, scrittrice, scomparsa
nel novembre scorso a 91 anni,
è stata segnata da scelte radicali anche
nei confronti di quella Chiesa che
molto amava, ma di cui contestava alcuni
comportamenti. Di qui i sospetti
nei suoi confronti, le polemiche e le
difficoltà di un dialogo che spesso si
è interrotto. Ma tutto questo fa parte
del passato. Ora conta il presente in
quel Dio con il quale Adriana ha coltivato
un’amicizia ininterrotta e che,
poco prima del congedo finale, ha
ringraziato per averle dato una vita
sempre diversa e sempre bella.
Da
questa eternità ci viene oggi incontro
nella sua essenza di donna, che ha
vissuto «nel grande solco della fede»
la normalità del quotidiano: «Sono
un’eremita come potrei essere una
suora, o una moglie, o un padre; vivo
in una cascina di campagna, come potrei
vivere in un monastero o in un
appartamento di città; faccio la scrittrice
come potrei fare la sarta. Niente
importa perché tutto è importante
nella medesima maniera».
Parole testimoniate da Un eremo non è un guscio vuoto (Einaudi), splendidamente scritto, che
va letto in silenzio per cogliere la bellezza
e la profondità di ciascuna parola,
immagine, colore, suono e odore.
Ripropone nella sua interezza Erba
della mia erba, pubblicato nel 1981,
integrato da racconti e riflessioni inedite,
recuperate dalla Zarri fra le proprie
carte. Offre il tempo d’una solitudine
scelta per vivere l’incontro con
Dio e con gli uomini, con sé stessa, in
quella profondità che il rumore del
mondo nega. Ma una solitudine affollata,
perché «un eremo non è un guscio
di lumaca», un ripiegarsi su sé
stessi. È una finestra spalancata sull’universo,
a cominciare dal microcosmo
che circondava il Molinasso, la
vecchia cascina abbandonata nel Canavese,
senza acqua, senza luce, con i
telai delle porte sconnessi, il vento gelido.
Ma fuori c’erano il prato, gli alberi,
i fiori, i torrenti e in lontananza «le
finestre accese nella notte e il vociare
degli uomini». C’erano i conigli, le galline,
le tortore, i colombi, i cani, la micia
siamese, ad alimentare quel rapporto
con gli animali «basilare per la
maturità della persona e per la sua capacità
contemplativa».
Lì, “sporcandosi le mani” nel ricostruire,
imbiancare, zappare, senza
mai cessare di pregare, si ritagliò, come
nell’eremo di Cà Sàssino, uno spazio
umano e nello stesso tempo cosmico
di sentimenti ed emozioni, che le
permisero di vivere idealmente fra la
gente. In una povertà francescana, inventando
con genialità femminile
fonti di sopravvivenza, costruì il suo
piccolo Eden, «il primo e ultimo giardino,
già da oggi presente, dove Dio
passeggia in compagnia dell’uomo».