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Adriana Zarri, sorella dell'umanità

23/03/2011  Mariapia Bonanate legge per noi "Un eremo non è un guscio di lumaca" della teologa e scrittrice che si è spenta nel novembre scorso a 91 anni.

   La morte è la misura definitiva d’ogni vita. La vita di Adriana Zarri, eremita, teologa, scrittrice, scomparsa nel novembre scorso a 91 anni, è stata segnata da scelte radicali anche nei confronti di quella Chiesa che molto amava, ma di cui contestava alcuni comportamenti. Di qui i sospetti nei suoi confronti, le polemiche e le difficoltà di un dialogo che spesso si è interrotto. Ma tutto questo fa parte del passato. Ora conta il presente in quel Dio con il quale Adriana ha coltivato un’amicizia ininterrotta e che, poco prima del congedo finale, ha ringraziato per averle dato una vita sempre diversa e sempre bella.

   Da questa eternità ci viene oggi incontro nella sua essenza di donna, che ha vissuto «nel grande solco della fede» la normalità del quotidiano: «Sono un’eremita come potrei essere una suora, o una moglie, o un padre; vivo in una cascina di campagna, come potrei vivere in un monastero o in un appartamento di città; faccio la scrittrice come potrei fare la sarta. Niente importa perché tutto è importante nella medesima maniera».

   Parole testimoniate da Un eremo non è un guscio vuoto (Einaudi), splendidamente scritto, che va letto in silenzio per cogliere la bellezza e la profondità di ciascuna parola, immagine, colore, suono e odore. Ripropone nella sua interezza Erba della mia erba, pubblicato nel 1981, integrato da racconti e riflessioni inedite, recuperate dalla Zarri fra le proprie carte. Offre il tempo d’una solitudine scelta per vivere l’incontro con Dio e con gli uomini, con sé stessa, in quella profondità che il rumore del mondo nega. Ma una solitudine affollata, perché «un eremo non è un guscio di lumaca», un ripiegarsi su sé stessi. È una finestra spalancata sull’universo, a cominciare dal microcosmo che circondava il Molinasso, la vecchia cascina abbandonata nel Canavese, senza acqua, senza luce, con i telai delle porte sconnessi, il vento gelido. Ma fuori c’erano il prato, gli alberi, i fiori, i torrenti e in lontananza «le finestre accese nella notte e il vociare degli uomini». C’erano i conigli, le galline, le tortore, i colombi, i cani, la micia siamese, ad alimentare quel rapporto con gli animali «basilare per la maturità della persona e per la sua capacità contemplativa».

   Lì, “sporcandosi le mani” nel ricostruire, imbiancare, zappare, senza mai cessare di pregare, si ritagliò, come nell’eremo di Cà Sàssino, uno spazio umano e nello stesso tempo cosmico di sentimenti ed emozioni, che le permisero di vivere idealmente fra la gente. In una povertà francescana, inventando con genialità femminile fonti di sopravvivenza, costruì il suo piccolo Eden, «il primo e ultimo giardino, già da oggi presente, dove Dio passeggia in compagnia dell’uomo».

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