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martedì 25 marzo 2025
 
 

Adultescenza: gli aspetti critici

30/07/2012  Si tratta di un neologismo applicato a tutti coloro che, pur avendo raggiunto biologicamente l’età adulta, presentano un’identità con tratti adolescenziali.

Un termine sintetico che prova a spiegare uno tra i problemi emergenti della società attuale: “adultescenza”. Si tratta di un neologismo applicato a tutti coloro che, pur avendo raggiunto biologicamente l’età adulta, presentano un’identità con tratti adolescenziali. Una doppia analisi, psicologica e giuridica, aiuta a capirne le specificità.

Con Adultescenza abbiamo voluto indicare una complessa serie di fenomeni psicologici, antropologici, sociologici e i loro risvolti giuridici, che riguardano oggi un numero crescente di adulti e contesti familiari nei Paesi sviluppati. Nella cultura anglosassone sono stati definiti kidult, ovvero bambini (kid) – adulti (adult); il termine cominciò a circolare negli Stati Uniti già negli anni Ottanta, quando si diffondevano i primi articoli scientifici sulla cosiddetta “Sindrome di Peter Pan” e, nel 1983, veniva pubblicato l’omonimo libro di Dan Kiley. Gli psicologi francesi li hanno chiamati adulescent (contrazione dei termini adulte e adolescent): riferimento scientifico sono gli scritti di Tony Anatrella. Riferimento culturale è il film Tanguy: un ragazzo brillante ha tutto ciò che gli serve, ma non vuole lasciare la casa dei genitori, nonostante essi facciano di tutto per cacciarlo. Ciò che si cerca di definire, è la commistione, in una persona che ha superato la soglia dell’età evolutiva secondo la legge e il comune sentire sociale, tra caratteristiche adulte e adolescenziali.

Adultescenza è un neologismo che indica il raggiungimento di un’età crono-biologica adulta, in persona con identità per molti versi ancora immatura con tratti adolescenziali. Ne emerge la figura di un individuo ancora profondamente condizionato dal permanere di idee, atteggiamenti e comportamenti tipici della fase giovanile. La fluidità della realtà contemporanea, con il suo continuo movimento e la sua indefinitezza, porta con sé una serie di modificazioni degli assetti delle persone che meritano attenzione, ascolto, analisi, ricerca delle motivazioni e, quindi, delle possibili soluzioni.

Se oggi molti adulti si trascinano in un’adolescenza che sembra non finire mai, procrastinando una fase della vita che dovrebbe essere transitoria, ciò non ha ricadute solo nel loro presente e nel loro futuro, ma anche in quello delle altre persone con le quali si relazionano. Non è solo il fatto che l’adolescenza, per le generazioni precedenti, terminasse prima e fosse accompagnata dall’uscita dalla famiglia di origine, dall’ottenimento di un lavoro stabile, dalla formazione di una famiglia propria, da una serie di traguardi che le persone raggiungevano perché considerati soddisfacenti e gratificanti, personalmente e socialmente (e quando venivano raggiunti gli apportavano al contempo sicurezza, maturità, solidità identitaria, in un circolo virtuoso che rafforzava il concetto di sé). Certamente, nelle cosiddette società evolute, il positivo allungarsi della durata della vita e della vita attiva comporta un differimento anche dei traguardi adulti: l’attuale situazione economica di “crisi”, con la difficoltà per le giovani generazioni di reperire attività stabili e sufficientemente retribuite per consentire un progetto di vita ritenuto adeguato, contribuisce nel differire i traguardi ritenuti prima fondamentali per l’ingresso nella vita adulta. Ne consegue spesso la dipendenza economica dalle famiglie di origine, da cui può conseguire a sua volta la dipendenza psicologica e sociale.

Ma non si tratta solo di questo: fermare l’analisi ai dati esterni è banalizzante e fuorviante; anche se si tratta di fattori influenti, non sono sufficienti a spiegare e a offrire la chiave di lettura corretta per un fenomeno molto più articolato. Dal punto di vista antropologico, secondo Van Gennep, “adultescente” è chi non ha effettuato un passaggio importante: la transizione all’età adulta è avvenuta in modo incompleto, complice il depotenziamento nella postmodernità dei riti di passaggio.

Questi hanno sempre rappresentato un dispositivo che aiuta l’individuo a mutare il suo status con l’intervento attivo della comunità; presenti in tutte le culture, ci informano su quali ne siano i valori condivisi poiché sottolineati nel rituale stesso. Accompagnano eventi importanti: la nascita, il passaggio della pubertà, la formazione della famiglia, la morte. Oggi i riti di passaggio appaiono aver subito un depotenziamento, segno che la maggior parte delle transizioni viene percepita come reversibile. Si tratta, più che di passaggi veri e propri, di “attraversamenti” che consentono di tornare indietro, dando modo all’individuo di mantenere la flessibilità necessaria ad adattarsi alle mutevolezze che la nostra società richiede. D’altronde ciò che era una risorsa (la solidità identitaria e relazionale) viene percepita come rischio, poiché potrebbe involontariamente condannare l’individuo a un destino di precoce obsolescenza, con l’esclusione da opportunità (lavorative e socio-affettive) che potrebbero affacciarsi all’orizzonte. Ciò che la liquidità implica, dunque, è di esser pronti a cogliere al volo nuove opportunità, sufficientemente svincolati e leggeri da poter viaggiare in ogni direzione.

Forse solo l’uscita dalla famiglia di origine, con la formazione della coppia e la creazione di una famiglia propria, rappresentano ancora il simbolo dell’uscita dall’adolescenza. Maternità e paternità, da sempre considerati parametri di adultità, sono però soglie evolutive attraversate a un’età sempre più avanzata suscitando carico di ansia e insicurezza.

I “nuovi genitori” spesso continuano a dipendere parzialmente o totalmente dalle proprie famiglie di appartenenza sul piano organizzativo ed economico. Ma ricoprire troppo a lungo il ruolo di figli rende più complicato svincolarsi per assumere quello di genitori. Questi fattori incrementano precarietà anche identitaria alimentando instabilità psicologica. È in costante crescita il numero delle persone che restano nella casa dei genitori oltre i trent’anni, e di quelle che vi fanno ritorno dopo un fallimento relazionale o lavorativo: tutto ciò è sintomatico anche di assenza di strutturazione forte dell’identità di adulto. Incapaci di immaginare il prossimo passo, intanto si torna indietro sulla strada già percorsa.

L’adolescenza, in sintesi, è dura da abbandonare, persiste, e “tende a tornare”, come fosse un momento esistenziale che si può vivere e rivivere. Vi sono anche comportamenti vissuti da adulti che esplicitano il loro desiderio di agire ancora da adolescenti perché a suo tempo non lo si è fatto abbastanza, rivelando così che un’adolescenza incompleta può avvelenare l’adultità.

Esiste anche una moda “adultescente”, stile adottato indifferentemente da bambini, adolescenti, adulti: è il lato “commerciale” del fenomeno. Nell’ultimo decennio le griffe che producono lo stile kidult hanno avuto una mirabolante crescita di fatturato, arrivando a miliardi di dollari. Cresce in parallelo, soprattutto per i ragazzi e gli uomini, la tendenza a dedicare molto tempo alle attività ludiche, al videogioco.

Lo stile “adultescente” è dunque anche un modo di vivere che il business ha sapientemente intercettato. Il modo di essere “adultescente” include gusti musicali, cinematografici, televisivi, e anche il linguaggio, che da una parte si carica di vezzeggiativi, diminutivi, espressioni affettuose infantili per far sentire eterni bambini, originali, creativi, colorati; dall’altra dell’adozione generalizzata di termini trasgressivi, per essere adolescenti con atteggiamenti anche verbali di rottura.

L’“adultescente” permane entro modalità che danno vita a dinamiche sociali e interpersonali che investono la struttura familiare. Il suo modo di vivere la coppia si caratterizza per il bisogno costante di emozioni e intimità, nonché per la tendenza a drammatizzare e teatralizzare sia i momenti più felici sia quelli conflittuali.

I genitori “adultescenti” difficilmente riescono a esercitare le fondamentali funzioni di guida verso i loro figli. E non sono sempre capaci di instaurare un rapporto maturo di “alleanza” con l’altro genitore, anche durante la convivenza. Non si fa fatica a immaginare cosa può conseguirne. Storicamente, quindi, si è passati da una generazione di genitori “autoritari” a una composta da adulti deboli e remissivi, quasi “presi in ostaggio” dai figli che trattano, e da cui sono trattati, da coetanei.

La vita di coppia e familiare non può infatti che risentire di uno stile indefinitamente “adultescente” dei protagonisti della relazione. La crisi è vissuta sempre più spesso come distruttiva e non maturativa: sembra perduto il senso della costruzione, della progettualità, che necessariamente passa attraverso fasi di reciproco adattamento perché è un equilibrio sempre nuovo, da ritrovare, sulla base della crescita personale e di coppia. Rinuncia e sacrificio sono avvertiti come sinonimi: il sacrum facere (anche in una dimensione laica), che passa attraverso la capacità di contenersi per qualcosa e per qualcuno, di scegliere positivamente per un progetto più grande accantonando chanche alternative, sembra essersi perduto; nell’immaginario di molti, o il partner è funzionale al proprio benessere “qui e ora” oppure non “serve” più ed è meglio dismettere la relazione al più presto, cercare qualcosa di nuovo più immediatamente appagante. Inoltre, quando l’esperienza della relazione di coppia si ritiene conclusa, non vi è spesso nemmeno la forza di cercare i necessari diversi assetti relazionali rispettosi della tutela prioritaria dei figli, soprattutto se minori di età, che sono i soggetti più vulnerabili.

I bambini vengono lacerati, tirati da una parte o dall’altra da genitori che non sanno contenere le proprie amarezze e delusioni al fine di proteggere il benessere dei figli; adulti immaturi che intendono “cancellare” l’altro dalla propria vita, eliminandolo anche nella stima e nell’affetto del figlio, senza soffermarsi ad ascoltare la sofferenza di questi; genitori “adultescenti” che coinvolgono nelle loro nuove relazioni i figli, senza attenderne i tempi, ascoltarne l’esigenza di metabolizzare la separazione, accorgersi della loro sofferenza nel veder sostituito così presto nella vita di un genitore l’altro, che è e resta per lui padre o madre.

I bambini nella crisi di relazione di coppia diventano allora oggetto di contesa e strumento di offesa, armi agite da adulti incontenibili (talvolta non solo i genitori ma anche i nonni che partecipano alla “guerra santa” contro l’ex partner del figlio/a). Ne escono lacerati, spesso con ferite profonde nella loro psiche e difficilmente rimarginabili, non sempre comprese dal genitore “adultescente”, accecato dal proprio narcisismo. Il genitore immaturo è fiero quando, per esempio, un figlio fa proprio il rifiuto dell’altro genitore da lui indotto e non si avvede del danno prodotto: il figlio non maturerà armonicamente, perché avrà mutilato una parte molto importante di sé, sarà portato nella vita a rifiutare tutti i rapporti che non riterrà appaganti. Non si considera in tal modo che quello alla bigenitorialità è un diritto di ogni persona, che ha anche a che fare con il diritto alla costruzione dell’identità personale.

Sarebbero necessari sistemi di welfare e di giustizia efficienti ed efficaci nella tutela dei diritti dei figli minori, soggetti vulnerabili. Ma i problemi sono vari. Il genitore “adultescente” in crisi di coppia, si attende che avvocato, giudice e assistente sociale modifichino la relazione con l’altro genitore, ritenuta invivibile per esclusiva responsabilità di questi; desidera e richiede, se non vendetta, soluzioni quasi magiche, risolutive della crisi. Vi è ricerca di rivincita e di delega crescente in modo direttamente proporzionale all’“adultescenza” dei richiedenti. A tutto ciò il sistema non è preparato e non ha risposte.

È evidente che non è questa la funzione degli addetti ai lavori, a cominciare dall’avvocato che deve dare voce alla domanda di giustizia secondo le leggi, e non assecondare le istanze più disparate. Inoltre una soluzione esterna, imposta dalle istituzioni, non risolve il problema. La giurisdizione in materia di famiglia, soprattutto quando riguarda figli minori di età, non può limitarsi a stabilire torti e ragioni, ma deve mirare alla ricostruzione delle relazioni su assetti diversi e funzionali all’interesse dei più deboli; per funzionare veramente necessita dell’adesione e del coinvolgimento attivo dei soggetti adulti. Si tratta di giurisdizione “mite”, non intrusiva, volta alla riattivazione delle risorse dei genitori, ma non “debole” che lasci spazio a comportamenti agiti in contrasto con l’interesse dei figli, criterio determinante di giudizio in tutte le questioni che li riguardino.

Il nostro sistema di giustizia sulle relazioni familiari risulta però inadeguato al compito: problematiche strutturali riguardano sia l’impostazione della normativa civilistica, di impronta sostanzialmente patrimonialista, sia la strutturazione della giurisdizione relativa alle relazioni familiari, frammentata tra più giudici (tribunale, giudice tutelare, tribunale per i minorenni) con regole processuali diverse. Un vero ginepraio nel quale si muovono con difficoltà anche gli addetti ai lavori non molto esperti.

La famiglia “isola felice” che non deve essere che lambita dal diritto si sta trasformando in un arcipelago investito da tsunami: sia perché l’attesa dell’utenza “adultescente” è per “interventi taumaturgici”, sia perché il nostro sistema di giustizia sulle relazioni familiari e le relative leggi sono ritagliate per modelli sociali che non contemplano le nuove fenomenologie.

In Europa il sistema giuridico delle relazioni familiari si sta riorganizzando intorno alla tutela dei diritti fondamentali delle persone e, in particolare, dei soggetti vulnerabili. Nel nostro Paese vi sono alcuni timidi e non sempre ben riusciti tentativi. Ne è esempio la normativa sull’affidamento condiviso, che intende preservare ai figli minori l’apporto paritetico di entrambi i genitori anche quando non vi è, o non vi è più, convivenza tra loro.

Sebbene il percorso sia ancora lungo e complesso e presupponga il convergere di diverse volontà e sensibilità, il senso di responsabilità sociale che accomuna gli addetti ai lavori, cui non è estraneo il dettato del II comma dell’art. 4 della nostra Costituzione, sta sospingendo verso riforme che eliminino le residue incongruenze con il dettato costituzionale e rendano aderente il sistema di diritto delle relazioni familiari alla normativa convenzionale e alle indicazioni europee. Tuttavia i problemi della diffusa immaturità, dell’“adultescenza”, non si risolvono (solo) con le pur necessarie modifiche legislative. È importante il convergere di diversi fattori, tra cui non ultima una mutata prospettiva di preparazione alla vita adulta e all’assunzione delle connesse responsabilità. Bisogna pensare anche in termini di formazione preventiva.

Gioverebbero anche una pastorale familiare volta alla forte sottolineatura del matrimonio quale sacramento, e una riflessione severa sul fatto che lo stesso non è soltanto secundum naturam. Un rapporto d’amore destinato a durare tutta la vita, a crescere con le persone che ne sono protagoniste, a modificarsi con loro, in un contesto sociale e valoriale diffuso che fornisce indicazioni profondamente diverse, pretende preparazione e attenzione rinnovate, anche in ragione dei nuovi fenomeni sociali che ne costituiscono condizionamento.

Così come gioverebbe, nella pastorale diretta ai separati e ai divorziati, nonché a coloro che con gli stessi operano a diverso titolo, mantenere fisso l’obiettivo primario della tutela dei figli, soprattutto se minori di età.

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