Un pianoforte per le strade desolate, in mezzo alle macerie di edifici sventrati dai bombardamenti. Le note di Beethoven e Mozart risuonano nell’aria spezzata dai rumori delle armi e degli esplosivi. Le immagini di Aeham Ahmad al pianoforte nel campo profughi palestinese di Yarmouk, vicino a Damasco, hanno commosso il mondo. Quando il campo è stato invaso e devastato dai miliziani dello Stato islamico, lui, Aeham, giovane pianista, ha deciso di rispondere alla guerra in Siria con la musica, di donare un barlume di speranza e di serenità ai bambini del campo di Yarmouk attraverso il pianoforte. Poi, un giorno di due anni fa, mentre lui suonava, qualcuno – non si sa se l’Isis o l’esercito – ha incendiato il suo strumento e ucciso una bambina, Zeynab, che lo stava ascoltando. In quel momento, Aeham ha capito che per lui era diventato troppo pericoloso stare lì.
È fuggito, ha attraversato la rotta balcanica, fino ad approdare in Germania, dove ha ottenuto lo status di rifugiato. Sua moglie e i suoi due figli, 4 e 2 anni, lo hanno raggiunto tre mesi fa. Oggi la famiglia vive a Weisbaden, vicino a Francoforte. Aeham ha ripreso a suonare, cantare e comporre, tiene concerti in Germania e all’estero (quando lo incontriamo è in tour in Italia). Ad agosto del 2016 ha pubblicato il suo primo album, “Music for Hope” (Musica per la speranza). Ora sta lavorando al prossimo disco, con la collaborazione di vari musicisti di diversi Paesi.
«I miei brani, in lingua araba, raccontano della Siria e di Yarmouk, parlano di pace, della mia gente. Canto alcune canzoni folk tradizionali di Aleppo. Attraverso la musica cerco di tenere viva l’attenzione sul mio Paese. Non importa di che religione siamo, cristiani o musulmani: siamo affacciati intorno allo stesso mare, il Mediterraneo. Attraverso la musica le barriere si rompono».
Oggi, dice Aeham, nessuno parla più del campo di Yarmouk e in generale dei profughi palestinesi in Siria. «Da anni a Yarmouk i profughi vivono senza elettricità e senza acqua. La situazione è terribile. Ora nel campo vivono 10 mila persone. Tantissimi rifugiati sono finiti in prigione». I suoi genitori sono ancora lì, lui non ha potuto portarli in Germania. Suo fratello è rinchiuso in un carcere del Governo di Assad e loro non hanno più sue notizie, non sanno neppure in quale prigione si trovi.
«Io suono dall’età di 5 anni», racconta, «era mio padre, violinista, che mi costringeva. Lui è cieco, non poteva leggere la musica, suonava solo sulla base dell’ascolto. Eseguiva musica araba, non classica. E voleva che suo figlio avesse un’educazione musicale. Io ho cominciato ad amare il pianoforte tanti anni dopo, da adulto ». Poi gli studi al Conservatorio. E l’insegnamento ai ragazzini. «Insegnare musica era la mia professione, finché abbiamo avuto la pace». Sua moglie Tahani, il viso dolce incorniciato dal velo, sorride nel ricordare le grida dei bambini che venivano a chiamarlo sotto casa per chiedergli di portare il pianoforte in strada. Anche Tahani è artista, dipinge e in Germania continuerà la sua attività. «Eravamo vicini di casa. Il nostro incontro è stato combinato dai nostri parenti. Uno di quei fidanzamenti tradizionali: non ci siamo potuti frequentare fino al matrimonio». La musica gli ha salvato la vita, ma avrebbe anche potuto essere la sua condanna.
Lui a Yarmouk ha rischiato tanto, ma si è salvato. «Così ha voluto Dio», dice. «A volte mi domando: perché non sono morto a Yarmouk? Forse perché ho una missione attraverso la mia musica». Mostra la mano destra: le cicatrici che attraversano le dita. «Sono le ferite dei bombardamenti », spiega. «Un tempo forse ero un bravissimo pianista. Oggi non più. Suono, ma con questa mano ho maggiori difficoltà. Suono Mozart, Beethoven, non più Rachmaninov. Ma la mia musica ha uno scopo: quello di dare una mano alla mia gente». Ogni giorno Aeham tiene concerti, ha un’agenda fittissima di impegni. «Ho sempre nelle orecchie le voci dei miei amici che sono in prigione in Siria », confessa. «Mio padre, quando voleva che io studiassi musica, mi diceva sempre: “Noi siamo rifugiati, non abbiamo una terra nostra. Dove suonerai il pianoforte è lì che troverai la tua terra”. Io ho capito questo insegnamento tanti anni dopo, quando sono diventato rifugiato per la seconda volta, in Europa. Grazie alla mia musica ho trovato la mia terra».
(Tratto da un articolo pubblicato in origine su FC6 del 2017. Foto in alto Ansa)