Lo sguardo indagatore, talvolta di sfida, dei
ragazzi. Lo spazio angusto dell’aula di una
scuola di borgata. Sono le finestre da cui
Eraldo Affinati, scrittore, insegnante, osserva
l’anima persa di Roma. La mattina insegna
all’Istituto professionale di Stato Carlo Cattaneo,
presso la succursale della Città dei ragazzi.
Il pomeriggio, nella scuola Penny Wilson fondata
con la moglie, dà lezioni di italiano a ragazzi
stranieri arrivati in Italia non accompagnati:
ragazzi che, incontrando persone diverse, sarebbero
forse finiti nelle grinfie della criminalità
che le indagini della Procura guidata da Giuseppe
Pignatone stanno facendo emergere.
- Professore, che cosa vede dalle sue aule?
«Vedo che la nostra crisi è etica prima che
economica. L’economia prima o poi ripartirà, più difficile sarà scacciare lo smarrimento che
colgo negli occhi dei nostri ragazzi, troppo spesso
cresciuti senza avere attorno adulti credibili,
capaci di dare loro il senso del limite».
- Come ridarglielo, quando il degrado morale
attorno non fa che portare altro degrado?
«Quella che Pasolini chiamava l’omologazione
dei giovani si è realizzata: sono ragazzi che
diffidano dell’originalità, appiattiti sui modelli
prevalenti di bellezza, successo personale, benessere
esteriore. A scuola dovremmo ricondurli ai
valori opposti del rigore, dell’applicazione quotidiana,
perché imparino a dare una gerarchia ai
valori e alle conoscenze che trovano a portata di
clic. In questo senso davvero un’aula è una trincea
etica. Le notizie romane sono solo l’ultima
manifestazione di uno sfascio epocale».
- Se l’esempio che proviene dalla società è così
scadente, come fa la scuola a far passare un
modello diverso?
«Sono fiducioso. Mi accorgo che, nello squallore,
sono i ragazzi a cercare, spesso inconsciamente,
modelli alternativi a quelli che vedono
affermarsi. Hanno bisogno di vedersi davanti
persone che fanno delle scelte e che le vivono fino
in fondo. Diffidano di chi parla senza aver vissuto
sulla pelle. Ma un insegnante che arriva
puntuale, che mostra dedizione al lavoro, incide
più con quello fa che con le cose che dice».
- Capita di sentirsi contestare di rappresentare
un modello perdente in una società così?
«È un rischio, ma se sei un insegnante devi
metterti in gioco. Non si educa senza ferirsi».
- In un suo libro, intitolato Berlin, fa parlare
pezzi di Berlino. Se oggi le statue romane potessero
parlare, che cosa direbbero?
«Direbbero che ne hanno viste di tutti i colori,
persino più di Berlino, se non altro perché
hanno visto più a lungo. C’è nell’anima di Roma
un senso di disincanto, vi si cresce, giocando a
pallone tra le colonne spezzate, con un senso di
sfiducia in quelle che Leopardi definiva le magnifiche
sorti e progressive. Ogni generazione ricomincia
da capo: quello che a noi sembrava acquisito
lo dobbiamo ogni volta ricostruire».