Don Milani andrà al premio Strega. Non direttamente ovviamente, ma attraverso lo “strano” libro, che gli ha dedicato Eraldo Affinati: L’uomo del futuro. Sulle strade di don Milani. Non è un saggio e neppure un romanzo, è una suggestione che li mescola e che Mondadori ha deciso di candidare al Premio Strega 2016.
Professor Affinati, che effetto le fa il suo Don Milani candidato allo Strega?
«Mi fa piacere e un po’ mi stupisce, perché di solito i premi sono un po’ affezionati ai generi, anche se per me mescolare non è una novità: molti miei libri sono così».
La candidatura ha fatto notizia, segno che don Milani continua ad attirare l’attenzione?
«Sì, i 49 anni trascorsi dalla sua morte sono stati spesso anni di fraintendimento di strumentalizzazioni da una parte e dall’altra, è stato spesso tirato per la giacchetta un po’ da tutti».
Ha anche lei l’impressione che sia stato più citato che letto?
«Direi di sì, anche perché molti che hanno letto il libro non sapevano molte cose: la mamma ebrea, le origini agiate. Al di là di questo il tema storicamente rilevante è che a quasi 50 anni di distanza, finalmente a bocce ferme, si può uscire dalle distorsioni ideologiche che hanno penalizzato la percezione del Priore di Barbiana. Adesso è il momento per leggerlo finalmente in modo libero e per sottrarlo alla nicchia degli addetti ai lavori e del mondo della scuola anche perché ha una statura che merita di più: per questo ho messo l’accento sulla sua qualità di scrittore».
Non è riduttivo che la sua fama postuma sia legata soprattutto a Lettera a una professoressa, in fondo datata, trascurando Esperienze pastorali e altre cose forse rimaste più attuali?
«Ma vale anche per l’epistolario, per la Lettera ai giudici, ma anche il modo stesso con cui parlava di scuola era un approccio antropologico, a tutto campo, che usciva dagli specialismi e che merita di essere recuperato e conosciuto meglio al grande pubblico. Anche quando parla di scuola parla della vita: il suo tempo pieno è un tempo vita. Io l’ho letto come uno scrittore, per capirlo come persona».
Il suo viaggio nei luoghi di don Milani, ha aggiunto conoscenza rispetto a quello che ne aveva capito dai libri?
«Sicuramente, è stato un materializzare i libri che avevo letto: solo vedendo i posti, solo vedendo il tavolo di legno di Montespertoli dove si mangiava in punta di forchetta nella famiglia bene da cui discendeva e mettendolo a confronto con il tavolo di legno grezzo su cui insegnava a Barbiana e a Calenzano ho capito molte cose della sua partenza. Mi ha aiutato anche andare nei luoghi del mondo e guardarli con i suoi occhi: ho scritto come se facessi un breviario interiore, l’ho scritto in seconda persona come in un esame di coscienza».
La distanza aiuta anche a superare le gelosie che ci sono sempre nell’eredità di personaggi così carismatici?
«Credo di sì, l’ho percepita questa gelosia tra gli ex allievi, ma credo che sia naturale, sarebbe sbagliato pretendere il distacco da loro: è giusto che ci sia in chi l’ha amato un elemento sentimentale. Mi è piaciuto che qualche ex ragazzo abbia anche ammesso questa gelosia, che però non ho visto in Adele Corradi, una donna deliziosa: Adele mi ha fatto entrare nel laboratorio di don Milani, ha mantenuto distacco, ma è normale. Lei era adulta loro erano ragazzi. Anche Milani condivideva questo amore incondizionato per i ragazzi».
Quale dei luoghi milaniani l’ha stupita di più?
«Montespertoli, da groppo alla gola. Perché non ha nessuna dimensione museale: nella villa in cui ha trascorso l’infanzia ho capito lo scarto lacerante che il bambino ha fatto percependo l’ingiustizia sociale della sua condizione di signorino. Sono convinto che la sua presa di coscienza sia stata lunga, non improvvisa».
Ha compiuto il suo viaggio sulle strade di don Milani appositamente per il libro o c’era già stato?
«Ci sono andato apposta, ma i libri di don Milani, che avevano già preso vita nel lavoro del mio insegnamento quotidiano ai ragazzi immigrati, mi hanno fatto da guida. L’uomo del futuro è stato la conclusione di un percorso cominciato da tempo: la scrittura è sempre l’ultima tappa dei miei viaggi, anche se è sempre faticosa per me».
A dispetto del sedimentare storico, don Milani divide ancora tantissimo: è l’esito delle strumentalizzazioni o del suo modo di esprimersi?
«C’è un elemento storico: ha agito nel mondo diviso della cortina di ferro, della Chiesa pre e post-conciliare, ha vissuto il tempo della contrapposizione. Dall’altra parte c’è anche il suo carattere umorale e volutamente provocatorio che certo ha favorito le reazioni».
La Chiesa di Francesco sarà quella matura per riabilitarlo?
«Lo spero, non è casuale che sia stato proprio Papa Francesco a sdoganarlo con il discorso agli insegnanti. Un Papa gesuita che va a riabilitare una figura che proprio dal mondo gesuita fu stroncata, con la recensione di Esperienze pastorali fatta da padre Perego su Civiltà cattolica, poi parzialmente risarcita dall’encomio solenne di De Rosa, sempre su Civiltà cattolica nel 2007. Con Papa Francesco siamo nella linea perfetta di don Milani: il Papa sta innovando il linguaggio, sa parlare ai giovani e don Milani ha vissuto tutta la vita per trovare le parole e darle. Io vengo da una famiglia illetterata: papà e mamma non avevano studiato e anch’io a mio modo sono stato un ragazzo di Barbiana: ho dovuto conquistarmi le parole.