I talebani. Alle prime notizie dell'ennesima strage, quella in cui sono state uccise più di 20 persone nell'assalto alla sede Unama (la missione Onu di assistenza all'Afghanistan) della città di Mazar-i-Sharif, si è fatto molto in fretta a tirare le conclusioni. Ma basta una minima conoscenza della realtà sul campo per respingere l'idea che il massacro sia stato generato da una sorta di furia popolare per il rogo del Corano avvenuto in Florida, 11 giorni prima, a opera del famoso pastore Terry Jones e del suo collega Wayne Sapp.
E basta poco anche per rendersi conto che anche l'estremismo islamico potrebbe aver poco a che fare con questo allucinante episodio. Troppo ben organizzata la spedizione contro i funzionari Onu disarmati, portata a segno con precisione e grazie ad armi nascoste in anticipo. Troppo clamorosa la scenografia, con i cadaveri decapitati nel più puro stile Al Qaeda, per non far pensare a una cruenta ma clamorosa messa in scena, realizzata per ottenere ciò che da dieci anni sta a cuore a guerriglieri, terroristi e trafficanti: allontanare gli stranieri e interrompere il faticoso, anzi travagliato processo di costruzione di uno Stato afghano e di un potere centrale competente ed efficiente.
Mazar-i-Sharif è il capoluogo di una regione abitata in prevalenza da tagiki (un'etnia poco abituata al fanatismo islamico) e da hazara, una minoranza sciita che ha storicamente subito, più che esercitato, prevaricazioni e repressioni violente. Mazar-i-Sharif, per contro, è la vera porta Nord dell'Afghanistan, perfettamente piazzata al crocevia delle strade che portano in Turkmenistan, Uzbekistan e Tagikistan, verso l'Asia Centrale e la Russia. Al crocevia, dunque, anche delle piste della droga e del narcotraffico, il vero motore dell'opposizione armata alla missione occidentale Isaf come al Governo guidato del presidente Karzai.
Qualche tempo fa Sergej Ivanov, responsabile del Servizio federale anti-droga della Federazione Russa, fece questa stima: la droga coltivata, raffinata e trafficata in Afghanistan vale, in prezzi al consumo, almeno 65 miliardi di dollari. Di tutto questo business, solo l'1% è controllato dai talebani veri e propri. Il resto è in mano a "signori della guerra", delinquenti e trafficanti di ogni genere e specie.
Ivanov polemizzava con le strategie degli Usa, che privilegiano l'aspetto simbolico-politico della questione e si concentrano sulle piantagioni di oppio che sono riconducibili al movimento dell'estremismo islamico, ma che sono anche una piccola minoranza del totale. Secondo un altro generale russo, Mahmut Gareev, questo dipende anche dal fatto che le truppe Usa in Afghanistan avrebbero organizzato un fiorente traffico di droga, trasportata fuori del Paesi sugli aerei militari che volano verso le basi di Ganci (Kirghizistan) e Inchirlik (Turchia).
Non dobbiamo obbligatoriamente pensare alle peggiori storie del Vietnam, ma resta il fatto che il narcotraffico in Afghanistan pare al momento (un momento che però dura da dieci anni, cioè dall'attacco del 2001) indistruttibile. E' chiaro che in esso sono coinvolti tutti i clan più potenti del Paese, compreso quello pashtun del presidente Karzai: suo fratello Walid è considerato il boss deglistupefacenti della regione di Kandahar.
Sarebbe però interessante scoprire dove finiscono, oltre che nel traffico di armi e nel sostegno alla guerriglia, gli enormi proventi che esso genera. Antonio Maria Costa, l'italiano che fu direttore dell'Agenzia Onu per la lotta contro la droga e la criminalità organizzata, nel 2009 dichiarò quanto segue: «Nel 2008 la liquidità era il problema principale per il sistema bancario e quindi tale capitale liquido (i proventi del traffico di droga, n.d.r) è diventato un fattore importante. Sembra che i crediti interbancari siano stati finanziati da denaro che proviene dal traffico della droga e da altre attività illecite. E' ovviamentr arduo dimostrarlo ma ci sono indicazioni che un certo numero di banche sia stato salvato con questi mezzi".
Terry Jones, ricordate? E' il settembre 2010, in Florida fa ancora caldo ma lui si presenta in abito nero e baffoni annunciando di aver istituito la Giornata internazionale "Brucia il Corano". Da sconosciuto ambulante della religione Jones si ritrova trasformato, nel giro di qualche giorno, in celebrità mondiale. Complice la tensione dell'Occidente e l'isteria di molte parti del mondo islamico, la baracconata di Jones provoca l'intervento dei potenti e degli autorevoli. Barack Obama lo condanna, il cardinale arcivescovo di New York, Timothy Dolan, dichiara alla Radio Vaticana che bruciare il Corano è un atto "contro la Bibbia, contro la pura religione e la pura fede".
Questa volta Jones ce l'ha fatta. Con l'aiuto di un altro imbecille ammantato del titolo di pastore, tal Wayne Sapp, ha bruciato il Corano in Florida. Dando così modo a tanti altri imbecilli, dall'Indonesia al Pakistan, di prenderlo sul serio e di scendere in strada a protestare e minacciare. E soprattutto dando modo ai violenti veri, quelli che studiano e calcolano, di organizzare il massacro di decine di persone indifese a Mazar-i-Sharif.
Anche questa volta, per limitare la congiura mondiale degli imbecilli, sono scesi in campo molte persone serie. Cameron P. Munter, l'ambasciatore Usa in Pakistan, ha pubblicamente affermato che "il rogo del Corano è stato un atto isolato condotto da un piccolo gruppo di persone che è contrario alle tradizioni americane. Non rispecchia il sentimento generale nei confronti dell'islam da parte del popolo degli Stati Uniti". Monsignor Lawrence Saldahna, arcivescovo di Lahore e presidente della Conferenza episcopale del Pakistan, ha detto: "Ci dispiace constatare che qualcuno che si definisce pastore sia così ignorante in quella che è la sua religione, oltre che della normale decenza". Questa volta, però, è stato tutto inutile. Troppo ghiotta l'occasione per gli stragisti di professione.