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martedì 17 settembre 2024
 
 

Rosso Afghanistan, calvario infinito

25/05/2013  Barbara De Anna, gravemente ferita nell'attacco talebano a Kabul, il 24 maggio, ha una lunga esperienza all'Onu: dal 2010 ha operato a Herat, dal 2011 è nella capitale.

Il gravissimo attentato di venerdì 24 maggio a Kabul riporta drammaticamente alla ribalta la situazione in Afganistan dove guerra e terrorismo si contendono da decenni il potere. Dopo il calo prevedibile di notizie scalzate dalle prime pagine da nuovi contesti di violenza in altre parti del mondo, l’ansia per le sorti di Barbara De Anna, la quarantenne fiorentina che lavora per l'Organizzazione internazionale delle migrazioni, rimasta coinvolta nell’attentato suicida al City Center della capitale afgana, ennesima vittima italiana di questo conflitto, tornano a riproporre la crudeltà, la brutalità e l’insensatezza che fin dall’inizio hanno contraddistinto questo calvario senza fine.

In molti abbiamo implorato i governanti perché non si ripercorressero gli errori già visti in altre realtà che hanno sacrificato vite umane innocenti tra militari e civili inermi senza mai aver portato a soluzioni durature e senza mai aver definitivamente sconfitto la piaga del terrorismo. In molti abbiamo chiesto a gran voce che l’Italia restasse fuori da questa ennesima risposta armata data dalla comunità internazionale prima di aver esplorato sino in fondo e con tutti i mezzi a disposizione altre vie pacifiche, diplomatiche e politiche e dopo aver riempito di armi e munizioni le caserme e i campi di addestramento delle varie fazioni delle milizie locali. Lo abbiamo fatto, e ancora oggi continuiamo a farlo, convinti che solo lo sradicamento della povertà, l’affrancamento dei diritti umani e il rafforzamento dei moltissimi soggetti “buoni” delle popolazioni locali possono combattere alle radici i fondamentalismi, gli ideologismi e gli estremismi che nutrono e alimentano le teorie e le forze terroristiche.

In altre parole, è indispensabile, prioritario e inderogabile fare della cooperazione e della solidarietà internazionali le armi dispiegate in tutta potenza e in tutto il mondo per costruire un futuro di convivenza pacifica e di vita dignitosa per tutti: per i miliardi di poveri della terra sempre più sprofondati nel fango della miseria e dell’impoverimento e per noi pochi privilegiati sempre più arroccati dentro le nostre fortezze di ricchezza continuamente violate e ormai definitivamente insicure. In questa convinzione, fortunatamente, non si è in pochi. Molti italiani si sono in più modi espressi in questa direzione e, soprattutto, oltre 7.000 nostri concittadini hanno deciso di dedicare un pezzo della loro vita a questa causa. Sono i volontari, i cooperanti e i missionari laici italiani che per pochi mesi o per lunghi anni le 250 associazioni cui fanno riferimento hanno inviato al fianco delle popolazioni povere dei Sud del mondo per appoggiare i loro sforzi di affrancamento dalla miseria e di avvio verso uno sviluppo più umano e una vita più dignitosa.

La maggior parte di loro, a testimoniare l’evangelica scelta privilegiata dei più poveri, svolgono il loro servizio in Africa dove le condizioni di vita restano le più dure: circa il 56% di loro, infatti, sta lavorando in questo continente a fronte di un 18% presente in America Latina e dei restanti equamente suddivisi tra Asia e Paesi dell’Europa dell’Est. Sono il vero contingente di pace schierato dall’Italia all’estero che con tenacia, sacrificio e lavoro quotidiano per lo più silenzioso combattono efficacemente le cause e le radici della follia terroristica e della pazzia di ogni fondamentalismo; sono la testimonianza vissuta delle relazioni possibili tra culture, fedi e religioni diverse che sconfessa con l’evidenza dei fatti chi ancora va predicando violenza, xenofobia e repressione. 

Questa forza vitale del nostro Paese, andrebbe sostenuta e incoraggiata con una determinazione ben superiore a quella dimostrata dai Governi succedutisi negli ultimi decenni.Solo 360, poco più del 5% del totale dei volontari e cooperanti in servizio, godono oggi dei benefici previsti dallo Stato ai sensi della legge vigente in materia di cooperazione internazionale; e solo 230 milioni di Euro, un misero 0,12% del PIL a fronte dell’obiettivo ONU dello 0,7%, sono le risorse investite dall’Italia nelle attività di cooperazione allo sviluppo. La grave congiuntura economica e la crisi di sviluppo che attanagliano il nostro Paese e l’Europa non bastano a giustificare un simile disimpegno.

E’ una convinzione che vogliamo trasmettere sin dall’inizio del suo mandato all’onorevole Lapo Pistelli, da pochi giorni delegato dalla Ministro degli Esteri Emma Bonino a seguire le attività della nostra cooperazione internazionale, convinti che il Vice Ministro Pistelli ha tutte le carte in regola per poter cogliere una sfida così difficile. Il rango a lui assegnato nel Governo Letta, la forza dell’appartenenza al maggior partito di governo e le sue competenze personali si dovranno misurare con le resistenze dei responsabili della spesa pubblica nazionale, l’opposizione di qualche forza politica e l’indifferenza di alcuni concittadini, ma dalla sua avrà i moltissimi italiani consapevoli della indispensabilità di trovare una soluzione condivisa tra tutti che sarà possibile solo quando tutti potranno vivere e scegliere in piena dignità.   

Sergio Marelli,
 esperto di cooperazione e
 di rapporti internazionali,
 Università di Bergamo

Ormai anche i sassi hanno capito che la semplice procedura elettorale non basta a fare una democrazia, a dispetto delle favole che per un decennio ci ha raccontato la destra di ogni Paese. Non è bastata in Irak, dove sono comunque caduti sul campo 32 soldati italiani, insieme a 3 civili, e non è bastata in Afghanistan, dove invece i militari italiani caduti sono stati finora 52. Lo dimostra, tra l’altro, anche il più recente rapporto Onu sulla corruzione in Afghanistan, che dipinge un quadro a dir poco desolante.

Nel 2012 la corruzione è costata al Paese (e ha fruttato ai disonesti) poco meno di 4 miliardi di dollari: un’enormità, soprattutto se si pensa che il Prodotto interno lordo afghano (cioè, tutta la ricchezza prodotta dall’intero Paese) vale meno di 20 miliardi di dollari. Il bottino accumulato dai corrotti, tra l’altro, è cresciuto del 40% nei soli ultimi tre anni. Il legame della corruzione con la democrazia emerge pienamente se si considera questo elemento: il 30% degli afghani ha denunciato di aver dovuto pagare una “bustarella” in transazioni private, ma addirittura il 50% ha denunciato la stessa cosa a proposito dei servizi pubblici.

La corruzione, per quanto sembri bizzarro, ha anche connotazioni regionali. L’Ovest e il Nord-Est dell’Afghanistan sono più colpiti dalla corruzione dei pubblici uffici: da quelle parti, una percentuale che oscilla tra il 60 e il 70% dei cittadini denuncia grandi e piccole estorsioni da parte dei pubblici ufficiali. Al Sud, invece, è più diffusa la corruzione “privata”, soprattutto nei villaggi da parte di anziani, mullah ed estorsori che in un modo o nell’altro si richiamano ai talebani.

Per finire: è ormai radicata nella testa degli afghani l’idea che la corruzione sia parte integrante del sistema. Nel 2009 solo il 42% degli afghani riteneva accettabile il fatto che un impiegato pubblico mettesse insieme un secondo salario pretendendo mance e bustarelle per fare il proprio lavoro; nel 2012, la percentuale è salita al 68%. Allo stesso modo, nel 2009 solo il 41% degli afghani giustificava il fatto che un impiego pubblico fosse assegnato sulla sola base dei legami famigliari o di clan e non anche sul merito e sulla capacità; nel 2012, quella quota è arrivata al 67%.

Fulvio Scaglione

«La libertà ha un prezzo e il prezzo è anche la vostra presenza attiva qui». Lo ha detto il 4 maggio scorso Mario Mauro, il neo ministro della Difesa in visita al contingente italiano schierato nell'Afghanistan occidentale. Le Forze armate italiane partecipano alla missione in Afghanistan da quasi dodici anni. Il 20 dicembre 2001, infatti, in seguito agli sviluppi della situazione politico-militare in Afghanistan, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite aveva approvato la Risoluzione numero 1386 con la quale autorizzò il dispiegamento nella città di Kabul e nelle aree limitrofe di una Forza multinazionale denominata International security assistance force (Isaf), con il compito di assistere le istituzioni politiche provvisorie afgane a mantenere un ambiente sicuro, nel quadro degli Accordi di Bonn del 5 dicembre 2001. Invocando quanto previsto dall'articolo 7 della Carta dell'Onu i soldati sono autorizzati a un uso ragionato della forza: possono insomma, sparare e ingaggiar battaglia se ritenuto necessario. L'11 agosto 2003 la responsabilità delle operazioni è passata nelle mani della NATO. Dopo esser stati complessivamente anche 4 mila, oggi i militari italiani sul campo sono circa 3.100 in tutto. 

Il personale militare italiano  presente nell'area di Kabul ricopre prevalentemente incarichi di staff presso il quartier generale di Isaf. Il contingente nazionale di stanza a Herat è, dal 24 marzo 2013, al comando del generale di brigata Ignazio Gamba, comandante della Brigata alpina "Julia". Il Regional Command West (RC-W), la zona sotto la responsabilità italiana, è un'ampia regione dell'Afghanistan occidentale (grande quanto il Nord Italia) che si estende sulle quattro province di Herat, Badghis, Ghowr e Farah. La componente principale delle forze nazionali è costituita da alpini che si muovono su veicoli blindati del tipo Lince e Freccia. Una compagnia del 6° reggimento bersaglieri opera invece a bordo dei Dardo. E' presente inoltre un significativo contributo di uomini e mezzi della Marina militare, dell'Aeronautica militare, dell'Arma dei Carabinieri e della Guardia di finanza.

Alberto Chiara

A meno di un anno dal ritiro totale delle truppe straniere, gli unici veri vincitori in Afghanistan sono i produttori e trafficanti di droga. Lo testimonia l'ultimo rilevamento sulla coltivazione di papavero da oppio, realizzato dall'Unodc , l'agenzia dell'Onu per la lotta alla droga e al crimine.

Nel 2012 sono stati censiti 154.000 ettari coltivati a papavero da oppio, con un incremento della superficie coltivata del 18% rispetto al 2011. Questo significa che il 2012 si piazza al quarto posto nella storia recente dell'oppio afghano, dopo il 2007 (ettari coltivati: 193.000), il 2006 (165.000) e appena dietro il 2008 (157.000).

Il grosso della produzione (69%) è concentrato nel Sud del Paese, con un contributo importante anche da parte delle regioni occidentali. A dispetto del netto calo di valore delle coltivazioni (si calcola che un ettaro di papavero da oppio renda al coltivatore 4.600 dollari, cioè il 57% in meno di quanto rendeva nel 2011), l'impatto economico dell'esportazione di oppio ed eroina/morfina resta altissimo: l'Unodc lo valuta sui 2 miliardi di dollari, pari al 10% dell'intero Prodotto interno lordo dell'Afghanistan.

Il Rapporto mette in luce anche una serie di conseguenze accessorie derivanti dalla coltivazione di oppio. 

Cannabis cultivation is closely related to poppy cultivation: 71% of poppy-growing 
villages reported cannabis cultivation in 2012, while only 2% of poppy-free villages 
reported it. 
Questa, per esempio: il 90% dei villaggi in cui non si coltiva l'oppio hanno una scuola per i ragazzi, e il 75% una scuola per le ragazze. La percentuale crolla al 61% (ragazzi) e al 19% (ragazze) nei villaggi dediti alla coltivazione del papavero. Allo stesso modo, il 71% dei villaggi che coltivano il papavero coltivano anche la cannabis (marijuana), mentre solo il 2% dei villaggi esenti dal papavero lo fa.

I dati colpiscono ancor più se si considera che nel 2012 l'attività di sradicamento ed eliminazione delle coltivazioni di papavero è stata sensibilmente più intensa di quanto fosse stata nel 2011. Ben 25.486 gli ettari di papavero eliminati nel 2012, in 1.027 villaggi di 18 province. Di questi ettari, circa 9.000 (quota quasi triplicata rispetto al 2011) sono stati eliminati grazie all'iniziativa dei governatori locali.

L'unica buona notizia arriva dai livelli di produzione di oppio, drasticamente inferiori a quelli del 2011. La produzione totale dell'Afghanistan nel 2012 dovrebbe essersi fermata a 3.700 tonnellate, un secco meno 36% rispetto all'anno prima, grazie anche a una resa per ettaro (23,7 chili) del 47% inferiore a quella del 2011. Ma anche qui c'è poco da festeggiare: il merito va soprattutto a una malattia delle piante di papavero combinata con una stagione inclemente dal punto di vista meteorologico.

Fulvio Scaglione

 




Comparisons of the gross and net values 
with Afghan’s licit GDP for 2012 also serve to highlight the opium economy’s impact on the 
country. In 2012, net opium exports were worth some 10 per cent of licit GDP, while the farmgate value of the opium needed to produce those exports alone was equivalent to 4 per cent of licit 
GDP. 
On the basis of shared
Comparisons of the gross and net values 
with Afghan’s licit GDP for 2012 also serve to highlight the opium economy’s impact on the 
country. In 2012, net opium exports were worth some 10 per cent of licit GDP, while the farmgate value of the opium needed to produce those exports alone was equivalent to 4 per cent of licit 
GDP. 
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